Francazero, racconto dal web

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>VOODOO<
view post Posted on 19/10/2007, 23:26




Secondo racconto classificato al concorso letterario per racconti a tema BDSM "La Rosa e la Frusta"

“Vieni qua!”. Corro veloce dalla mia Padrona, mentre i campanellini del mio collare tintinnano. Il mio corpo è nudo, tranne la stretta fascia di cuoio nero che mi stringe in vita e il collare che mi blocca il collo. La mia Padrona indica il monitor del computer ed io leggo in fretta: “La Rosa e la Frusta”. Concorso di scrittura. La mia Patrona mi tocca il seno con la bacchetta metallica che spesso segna la mia pelle quando la mia inadeguatezza è punita: “Scrivi!” “Io, Padrona?” Il colpo arriva immediato sull’anellino metallico che mi attraversa il capezzolo, ed i miei occhi si riempiono di lacrime. Le mie mani vanno sulla tastiera, ma non sanno che fare e la mia voce è un tremito: “Cosa scrivo, Padrona?”. Riflette e intanto la bacchetta mi sfiora il volto, tocca le labbra, preme fredda i denti e poi si posa sotto il naso spingendolo verso l’alto. Cerco di restare immobile e aspetto. “Racconta di Noli, del Castello.”. Cerco di non arrossire: “Sì, Padrona.”. “Racconta di come sei scesa all’inferno!”. “Sì, Padrona!”. Abbia, chi legge, misericordia di me! Il colpetto alla punta del naso è leggero, ma mi fa trasalire: “Racconta come sei, senza mentire.” “Sì, Padrona.” La bacchetta accarezza i capelli e colpisce la nuca con colpetti secchi: “Hai tutta la notte per scrivere.” Mi lascia sola ed io comincio a raccontare. Il mio nome è Francesca, ma per i miei Padroni e per voi sono francazero. Ho 27 anni, sono nata a Precetto e lavoro a Torino, commessa in una cartoleria del centro che appartiene alla mia Padrona. Vivo sola in un monolocale di via Verdi. Ho capelli scuri, quasi neri, portati cortissimi. Di corporatura sono longilinea, sottile di vita e seno piccolo. Dimostro alcuni anni in meno della mia età. Non credo e non cerco di essere bella. Sono frigida e ho bisogno di emozioni particolari per sentirmi viva: questo fa di me quello che sono. Sono al servizio totale dei miei Padroni da otto anni, dopo la ricerca inutile di una strada diversa. Ma adesso devo raccontare di Noli, perché questo mi ha chiesto la mia Padrona. Maggio. Quest’anno, regala giornate belle e calde come i mesi estivi. I miei Padroni mi chiamano nella loro casa in collina un venerdì sera e mi comandano di lavare l’ingresso e la scala fino al primo piano: pulisco in ginocchio, a mani nude. I miei Padroni non sono soddisfatti perché non riesco a togliere le macchie da uno dei gradini che pure ho strofinato forte con lo straccio e poi grattato disperatamente con le unghie. Per punizione devo pulire un davanzale esterno con la lingua (sa di polvere, fumo e muschio) e poi trascorro il resto della notte in piedi, le caviglie e le ginocchia legate ed i polsi appesi appena sopra la testa, in modo che riesco un po’ alzarmi ed abbassarmi, ma non posso né inginocchiarmi né sedermi sui calcagni. Il mio Padrone mi fa assaggiare la frusta sulla schiena, ma i colpi che ricevo sono pochi e non vengo frustata veramente. Nella notte riesco a addormentarmi in piedi per brevi momenti, ma senza trovare riposo. Verso al mattino mi prende un prurito feroce appena sotto il seno e non posso strofinarmi in nessun modo per alleviarlo. È una crudeltà sottile e assurda che mi tormenta fino a quando credo di intravedere all’esterno, attraverso le imposte chiuse, le prime luci dell’alba e ho la fortuna di perdere i sensi. Mi fanno svegliare gli schiaffi del mio Padrone che mi libera, mi porta in giardino e mi lava con la pompa. Per asciugarmi mi costringe a correre nuda in tondo ed io ubbidisco, anche se i miei muscoli sono bloccati e rigidi. L’aria è fresca, ma i raggi del sole sono caldi e, muovendomi, mi asciugo in fretta. Corro e salto in alto ogni volta che il mio Padrone fa schioccare le dita. Dopo mezz’ora il Padrone mi lascia e mi concede di sdraiarmi al sole sulla ghiaia. Mi addormento subito e, credo, sono lasciata dormire per un paio d’ore. Mi sveglia la pressione brusca del piede della mia Padrona sul collo, una presa di possesso sicura che molte volte ho sperimentato ed amo al punto di cercare sempre, d’istinto, di raggiungere con le labbra la gamba che mi calpesta. Potrebbe diventare una pressione mortale, se la mia Padrona decidesse di affondare il tacco che preme duro sulla mia carotide, e io morirei felice, sotto il calcagno della mia Padrona. Tengo le braccia larghe ed aspetto. Forse un giorno davvero la mia Padrona sarà annoiata di me al punto di uccidermi, o forse sarà un punizione più forte che mi spezzerà per sempre. La mia vita appartiene ai miei Padroni e il mio unico desiderio è che sia Loro. La mia Padrona mi fa alzare e indossare uno slip rosso largo e maschile, una camicia larga a mezze maniche che mi copre appena i fianchi e un paio di zoccoli alti da mare. Quando mi viene comandato, porto i bagagli dalla camera dei miei Padroni al cortile, perché il mio Padrone li sistemi nel bagagliaio della sua Volvo 70. In automobile, io viaggio sul sedile dietro al mio Padrone che guida. La mia Padrona mi rimprovera due volte sorprendendomi a guardare dal finestrino: vuole che il mio portamento sia impeccabile e, quindi, busto dritto, spalle ben aperte, braccia parallele al corpo e i palmi delle mani posati aperti sopra le cosce. Devo guardare davanti a me, spostando lo sguardo solo verso la persona che m’interroga o verso i miei Padroni. È difficile per me essere composta come mi viene richiesto, perché sono una schiava incapace e fiacca. La mia Padrona mi rimprovera infatti una terza volta e la quarta, quando ormai stiamo uscendo dalla Torino-Savona, mi colpisce con la bacchetta la punta delle dita strappandomi uno strillo: stavo dormendo! Vergognosa aspetto la mia punizione, ma questa non può avvenire subito e rabbrividisco perché, allora, sarà più severa. A Vado parcheggiamo la Volvo sull’Aurelia e raggiungiamo a piedi la spiaggia. I miei Padroni scelgono un tratto libero, laterale a un lungo pontile per i cargo. La spiaggia è pietrosa, pulita e nascosta in parte dal pontile stesso. C’è poca gente e nessuno vicino a dove stendiamo una stuoia che, ovviamente, è solo per i miei Padroni. Sono passate da poco le undici, l’aria è fresca, ma il sole brucia. La mia Padrona indossa in un costume intero che le lascia la schiena nuda e si stende a abbronzarsi; il Padrone passeggia sulla riva ed io siedo composta sui talloni. Quando il Padrone torna verso di noi ha in mano un bastone di legno lungo una trentina di centimetri. Con il bastone mi tocca la camicia che io sfilo subito, poi accenna anche allo slip ed io resto nuda. Il Padrone lancia il bastone verso il mare: “Riportalo!” Mi alzo, corro sette o otto metri, mi chino, lo raccolgo e lo riporto sempre di corsa. Ricevo un ceffone a mano aperta e in pieno viso che mi fa cadere all’indietro. Il braccio del mio Padrone è molto forte ed i suoi colpi duri come bastonate. La guancia mi formicola e guardo mortificata il mio Padrone: “Con la bocca devi prenderlo e riportarlo! E senza perdere tempo corricchiando: devi essere veloce, hai capito?” “Sì! Sì, Padrone!” Lancia di nuovo il bastone che ricade sul bagnasciuga e rotola avanti e indietro, risucchiato dall’onda. Io corro più veloce che posso e poi giù in ginocchio a cercare di prenderlo con i denti. Il bastone, per mia fortuna, galleggia. Corro di nuovo indietro dal mio Padrone che ha un cenno di approvazione afferrandolo, mentre allungo la bocca per restituirglielo. “Più veloce, sei troppo lenta!” Lancia di nuovo ed io corro, afferro in bocca il bastone e lo riporto. Il gioco si ripete ed il mio Padrone si avvicina alla riva e lo getta in mare, costringendomi a correre nell’acqua e a nuotare per raggiungerlo. Prenderlo con i denti, man mano che la fatica e la stanchezza aumenta, mi fa bere sorsi d’acqua salata. Tre ragazzi sono venuti anche loro a prendere il sole in spiaggia e mi osservano: per fortuna si sono accampati ad una certa distanza dai miei Padroni, lontano dal mare. Cerco di ignorarli mentre il mio Padrone continua a lanciare il bastone in mare ed io a entrare ed uscire dall’acqua. Sono così stremata che ormai abbocco anche alle finte e mi trovo a scattare e correre prima di accorgermi che il bastone è ancora nelle mani del mio Padrone. Incespico sempre più spesso e cado sulla ghiaia, collezionando graffi su gomiti e ginocchia. Il Padrone mi rimprovera e io non riesco che ad essere sempre più lenta e maldestra. A un certo punto il bastone che avevo già preso mi cade ed io quasi affogo respirando l’acqua col naso tentando di riprenderlo. A fatica riesco a posare il bastone vicino ai piedi del mio Padrone e, subito dopo, i conati di vomito che fanno rigettare acqua salata e bile. Il Padrone raccoglie il bastone e me lo batte sulle spalle. Mi rialzo e lo seguo tossendo sconsolata fino alla stuoia dove lui si sdraia e parla con la mia Padrona, mentre io mi seggo sulle pietre, cercando di riprendermi e restare il più composta possibile. “Un colpo di freddo”, commenta la mia Padrona guardandomi e aggiunge: “Dritta con la schiena!” Il sole mi aiuta. Ogni tanto il mio Padrone lancia il bastone e io corro a riprenderlo e poi mi rimetto seduta e in attesa. Sento più volte ridere i ragazzi, due maschi ed una femmina, che si sono avvicinati a noi. La ragazza sembra indispettita, ma i due maschi fanno apprezzamenti su di me che non posso non sentire e che certamente sentono i miei Padroni. Li divertono soprattutto il mio inguine depilato e gli anelli ai capezzoli: “Comodi per appenderci le chiavi!” “Già, ma come fai poi a girarle nella stoppa?” Ridono. Io resto immobile finché il mio Padrone lancia verso di loro il bastone, che cade quasi sullo stuoino della ragazza. Non esito: corro, lo raccolgo con la bocca e lo riporto al mio Padrone. “Che razza di cagna!”, protesta la ragazza e i suoi compagni ridacchiano. Non mi offendo, perché io sono meno di una cagna. Quando il mio Padrone lancia il bastone verso il molo, scopro un quarto spettatore: un uomo cinquantenne, grosso, senza capelli e molto muscoloso. Un gorilla! Cerco di non guardare verso di lui, che mi osserva con occhi così affamati da mettermi in vero imbarazzo. Mi segue qualche passo e solo dopo avermi osservata qualche minuto torna a sedersi. I ragazzi sono andati a fare il bagno in mare e ora passeggiano lungo la riva. Uno lancia un ramo e grida alla ragazza di prenderlo: lei lo raccoglie, però solo per tirarglielo in testa. S’inseguono e giocano lottando per un po’. Mentre non lo guardo, il mio Padrone scaglia il bastone che vola verso di loro. Io corro, ma la ragazza è vicina e lo raccoglie prima di me. Mi fermo davanti a lei che mi guarda curiosa e divertita. Io sono nuda e lei ha un bikini bianco con sottili righe colorate. Avanzo di un passo e lei alza la mano per porgermi il bastone però, quando io piego in avanti la testa per afferrarlo con la bocca, istintivamente spicca un salto all’indietro. “Dallo a me!”, urla uno dei ragazzi che ha un costume rosso ed i capelli ancora più rossi. La ragazza esita e poi glielo appoggia in mano, guardandomi con una curiosità beffarda. So che devo riottenere il bastone per il mio Padrone e mi avvicino al ragazzo e lui fa il gesto di offrirmelo ma, quando cerco di prenderlo, sposta la mano di qualche centimetro e poi di nuovo e ancora, facendomi sempre andare a vuoto. L’altro ragazzo, che è biondo, scoppia a ridere: “Troppo divertente! Troppo!” Provo ancora, però riesco solo a sfiorare il bastone con le labbra. Mi si riempiono gli occhi di lacrime e provo ad allungare una mano, ma il rosso nasconde subito il bastone dietro la schiena: “Solo con la bocca!” La ragazza gli dice di smetterla, ma il biondo ha un’idea diversa: “Falla saltare! Falla saltare! Se non lo prende, i Padroni la picchiano!” E il rosso mi fa saltare, facendomi danzare il bastone sopra la testa. Salto, cado e salto ancora, finché anche il biondo si sbilancia ed io riesco a rubargli il bastone e corro subito dal mio Padrone. È arrabbiato: “Ci hai messo troppo tempo!” Prende il bastone e lo pianta nella terra. Si alza ed io lo seguo avvilita, sapendo che mi aspetta una punizione. Anche la Padrona viene con noi, ai piedi dei pilastri del pontile. Entro in acqua fino alle ginocchia e il mio Padrone mi fa appoggiare al basamento di cemento. “Girati verso il pilastro.” Obbedisco e il Padrone mi spinge in modo che il ventre e il seno siano ben premuti contro la superficie viscida di alghe. “Resta ferma!” Non mi muovo e respiro forte l’odore del mare. Socchiudo gli occhi, ma li spalanco subito con uno strillo che non riesco a trattenere quando un piccolo sasso, scagliato con forza, mi colpisce la schiena. Non mi muovo e un secondo tiro mi manca di poco e subito ne arriva un terzo, secco su un gluteo. I tiri continuano, quasi tutti a segno e dolorosi come bruciature. Di molti mi troverò a lungo un livido ricordo sulla pelle, un livido che diventa più colorato e doloroso quando i tiri centrano lividi precedenti. Una pausa e mi arrischio a guardare alle mie spalle: i Padroni stanno parlando ai due ragazzi (la ragazza è in disparte) e all’uomo grosso e muscoloso. L’uomo grosso ride e si massaggia il petto. La risacca mi lascia sentire solo parole isolate, ma capisco che sarò il bersaglio di una gara di tiri. La mia Padrona viene a spiegarmi: “Quando ti senti colpita al sedere devi gridare <sì!>, quando sei colpita altrove devi gridare <no!>. Capito?” “Sì, Padrona!” Purtroppo è semplice. Qualche tiro di riscaldamento per tutti:”No!” “No!” “Sì!” “Sì!” “Ouk! No!” Poi si fa sul serio e sono lapidata. Cerco di non spostarmi ma, dopo alcuni minuti, i colpi sono così tanti che comincio a muovermi e a salterellare per resistere al dolore. “Ferma, altrimenti ti leghiamo!” Io cerco di stare ferma: mi aggrappo al cemento, mordo le alghe. I miei fianchi sono così martellati che ormai ogni colpo arriva su un centro precedente. Comincio a sbagliare, a dare buoni dei tiri che neanche mi hanno sfiorata, e il mio Padrone si arrabbia. Mi fa voltare ed adesso il bersaglio sono i seni. La Padrona mi fa tenere un asse di legno davanti al volto per evitare che qualche tiro sbagliato mi colpisca la faccia. I tiri ripartono e, se all’inizio è un relativo sollievo essere colpita su carne nuova, dopo una ventina di tiri comincio a piangere e non riesco più a contare. Eppure i tiri continuano e si abbassano verso il ventre. “Tieni le gambe aperte!” Cerco di ubbidire, ma il mio corpo non mi risponde. Mi fanno allora inginocchiare ed è la mia Padrona che valuta i lanci e che mi risolleva quando, per il male, mi lascio scivolare in acqua. La gara è finita. “Lavati la faccia e vieni qua!” Mi risciacquo nell’acqua e osservo avvilita i segni ho sul seno e sul ventre. Ancora di più ne ho sulle natiche che neanche provo a toccare. Torno a riva. “Me l’ha fatto diventare duro come l’acciaio!”, ride il ragazzo dai capelli biondi mentre si infila un preservativo e la ragazza lo osserva. Il mio Padrone mi fa sdraiare a terra sulla pancia, braccia e gambe divaricate come sant’Andrea. Il ragazzo si prepara a sodomizzarmi, ma quello che mi terrorizza è il suo corpo che si prepara a premere i miei lividi. Prima che si metta su di me, il ventre e i seni urlano già per il contatto con la superficie ghiaiosa. Il ragazzo esita e chiede al mio Padrone: “Devo fare piano?” “No, perché?” Sento su di me lo sguardo fisso della ragazza del terzetto e cerco di fissare solo lo spazio davanti a me, il collo inclinato all’indietro, come vuole il mio Padrone. Ma la ragazza si mette proprio davanti e mi costringe a guardarla e ad esserne guardata. Il ragazzo biondo monta su di me con cautela ma, appena tocca i miei fianchi, il dolore della carne è tale che cerco con uno spasimo di divincolarmi. Lui mi tiene senza fatica e lo sento entrare in me con due colpi duri e rettilinei. Anche se l’acqua ha indurito la mia carne, le torture del miei Padroni mi hanno reso da subito una preda facile anche alla sodomia. Respiro a bocca aperta, senza simulare un piacere che non provo. Eppure, per il dolore e l’umiliazione, arrivo a raggiungere nella sofferenza qualcosa che è per me molto vicino al godimento. La ragazza mi guarda come se cercasse di leggermi dentro ed io vorrei che davvero potesse leggere in me tutto, anche quanto io stessa ignoro. Il ragazzo si muove in me con forza crescente, le sue mani mi tirano i capelli e mi afferrano la spalle spingendomi verso di lui quando affonda in me. Seguo vinta e ubbidiente il ritmo del suo corpo, cercando di vincere il dolore che il contatto del suo corpo e quello sulla ghiaia mi fanno soffrire. Una danza lunga che finisce di colpo, con una sequenza di colpi scomposti e l’improvviso staccarsi del ragazzo dalla mia schiena. Ne sono sorpresa e ancora più sorpresa e spaventata dalla violenza con cui l’uomo muscoloso prende il posto del ragazzo. A lui non va bene che, come vuole il mio Padrone, io resti inerte e passiva. Mi costringe ad inarcarmi afferrandomi le spalle ed a aprire le gambe al massimo che mi è possibile. Mentre le sue dita mi strizzano i seni trovando con pestifera facilità i rigonfiamenti dei lividi, e pizzicando i capezzoli quasi a strapparne gli anelli, cerca furiosamente di penetrarmi. Il suo membro è grosso ma ancora molle eppure, aperta come sono, riesce ad entrarmi nella vagina quasi subito, da dietro. Le sue mani mi stringono e palpano con una forza che sarebbe già sadica se il mio corpo non fosse segnato di lividi. Stringo i denti, ma so di non avere per nulla la compostezza che i miei Padroni esigono. La mia è una lotta per vincere la sofferenza quel poco che basta per respirare. L’uomo si indurisce in me e forse questo frena in parte la sua rabbia. Mi sculaccia però con forza, a colpi regolari, con una mano che è dura come il legno. Il ritmo dei suoi fianchi mi stordisce la testa. Sento il suo piacere montare e poi esplodere in me, anche se nell’involucro sottile del profilattico. Quando mi lascia, io resto immobile come lui mi getta, in attesa di un altro che non arriva. Il rosso è vicino alla ragazza: forse stanno insieme e lui non vuole offenderla. Il biondo mi guarda, come si guarda un giocattolo di cui ci si è improvvisamente annoiati o forse è imbarazzato dai suoi amici. Potrebbe prendermi ancora, ma non lo fa. L’uomo muscoloso si è lavato in mare ed ora si sta rivestendo. Parla con i miei Padroni, ride, poi fa un saluto ai ragazzi e si allontana. Io mi metto seduta, cercando di assumere un portamento dignitoso. Il biondo sta discutendo con i miei Padroni. Vuole delle foto con me, ma il mio Padrone non è d’accordo. Alla fine però le foto si fanno: io sono buttata ventre a terra e con il volto affondato nella ghiaia. Il ragazzo si fa fotografare seduto sulla mia schiena, mentre mi sculaccia e mentre mi domina come una preda uccisa. Poi raccoglie un sassolino rotondo e chiede: “Posso usarlo come supposta?” La mia Padrona mi fa mettere come una cagna e intanto vengono cercati e selezionati dieci sassolini. Alla ricerca partecipano i ragazzi e i mie Padroni. Il biondo inserisce sei sassi, la mia Padrona gli altri. Non fanno male, anche se li sento fastidiosi. Insieme, con naturale complicità, la mia Padrona e la ragazza mi massaggiano il ventre per qualche minuto, spingendo i sassolini verso l’alto. La ragazza mi costringe ancora a guardarla negli occhi: “Ma ti piace davvero essere trattata così?” Reggo i suoi occhi e capisco cose di lei che lei stessa ignora: “Mi piace, Padrona!” La ragazza scoppia a ridere, ma non la mia vera Padrona: “Franca ha ragione, per una volta.” Siamo andati a mangiare tutti e sei ad un ristorante cinese lungo l’Aurelia. Il pavimento è trasparente e si cammina sopra un acquario con pesci e animali marini. Fatico a sedermi e a stare composta con le mie natiche livide. Il mio Padrone ordina per tutti e, ovviamente, per me. Il mio cibo è un piatto aspro e dolce insieme che non so decifrare. I ragazzi sono pieni di domande, soprattutto la ragazza, che si chiama Silvia, e i miei Padroni rispondono per me. Perché è di me che si parla. Ai miei Padroni interessa Silvia: lei esita, ma non sfugge. Mangio il mio piatto, ma il mio intestino sente il peso dei sassolini e dei colpi ricevuti. Chiedo al mio Padrone il permesso di andare in bagno, suscitando ilarità tra i ragazzi. “Sono le supposte che fanno effetto?” “Sì, Padrone.” “Vai, ma recupera i dieci sassolini.” Otto. Ne ho recuperati solo otto. Mi sforzo, ma senza successo: otto restano. I ragazzi ridono a crepapelle e ride anche il ristoratore cinese che non capisce. “E gli altri due?” “Non c’erano, Padrone.” “Sono ancora dentro?” “No, Padrone.” “Hai cercato bene?” “Sì, Padrone!” “Evidentemente no!” Sono desolata: “No, Padrone.” I sassolini sono nel mio piatto. Il mio Padrone seleziona i quattro più piccoli: “Mangiati questi e vediamo se, prima di domani sera, riesci a recuperarli!” Prendo il primo e l’inghiotto, cercando di non sentire il sapore che, benché in bagno io l’abbia risciacquato, ha ancora. Silvia mi riempie il bicchiere a metà di birra. Con la birra inghiotto gli altri tre. “Ancora uno?”, propone il biondo. Ne inghiotto ancora uno. Gli altri tre si decide che sono troppo grossi, però quando arriva la frutta cinese, non per me e non per Silvia che ha preso il gelato, mi arrivano nel piatto otto noccioli. Il biondo chiede al cinese se può procurarci dei noccioli senza frutta ed il cinese torna quasi subito con una dozzina di noccioli e resta a guardare mentre io inghiotto anche quelli. Educatamente si informa se abbiamo intenzione di tornare ancora, perché in tale caso può tenerci da parte tanti noccioli, visto che alla signorina (a me!) piacciono. I miei Padroni ed i tre ragazzi si salutano. Il biondo vorrebbe organizzare ancora qualcosa insieme, ma ai miei Padroni interessa solo Silvia e Silvia, più volte, mi osserva e dice che deve riflettere. I miei Padroni ed io saliamo sulla Volvo e lasciamo l’Aurelia, rientrando verso l’interno. La strada è breve ma piena di curve e i proprio non riesco a stare composta. “Schiena dritta e più rilassata”, mi ripete la mia Padrona. Arriviamo al Castello dopo più di un’ora. Padrona Katia abbraccia i miei Padroni, mentre un ragazzo mulatto si carica di quasi tutti i bagagli lasciando a me due valigie. Il mulatto è fortissimo e, mentre io arranco sulle scale con le due valigie, lui è già sopra con il suo carico che sarà quattro volte il mio. Quando arrivo mi squadra sfottente e mi fa segno devo posare le valigie. Poi scende le scale, io lo seguo e raggiungiamo i Padroni. Padrona Katia mi osserva negli occhi che io cerco di non abbassare. “Avevamo qualche speranza in questa schiava, ma ci sta deludendo ogni giorno di più”, spiega con una certa stanchezza la mia Padrona. Padrona Katia saggia il mio collo, come se scegliesse il punto dove colpire per spezzarlo. Quando meno me l’aspetto, mi schiaffeggia e mi guarda negli occhi nuovamente. Cerco nuovamente di resistere al suo sguardo e di lasciare che i suoi occhi entrino in me. Padrona Katia non è per niente soddisfatta: “Questa schiava è troppo arrogante. Deve essere umiliata profondamente. Deve essere annullata.” La mia Padrona viene ad osservarmi, mi tocca con la sua bacchetta e accarezza una cicatrice sulla mia schiena: “L’abbiamo punita. Ha conosciuta la frusta fino ad esserne segnata per sempre. Sa quanto lungo è aspettare il nostro perdono e quanto possono essere crudeli e umilianti i castighi.” Padrona Katia mi gira le spalle: “Non basta. Non è bastato.” Io ho paura e cerco di nasconderlo, ma so che la mia paura è evidente come un urlo. Durante la cena i miei Padroni a cena raccontano a Padrona Katia di Silvia e di come sono stata usata come bersaglio. Padrona Katia scuote la testa: “Date troppo valore alla vostra schiava.” Io sono in ginocchio e mangio sul pavimento gli avanzi che mi vengono lasciati cadere. Io sono francazero. Il mulatto serve e calpesta il mio cibo. Finito il pranzo Padrona Katia mi fa mostrare i lividi sul corpo e ripete che non è la punizione della mia carne che serve, ma quella del mio orgoglio. Il mulatto mi guarda fisso. Padrona Katia si avvicina a lui e lo bacia sulla mia bocca: “Alì è la mia creatura. Io l’ho distrutto e l’ho riplasmato. Le sue mani sono le mie mani e la mia volontà è la sua volontà. Lui sa quanto è possibile affondare, perché lui è affondato fino al fondo dell’abisso e ne è uscito solo quando io ho voluto che risalisse.” Subito osservo Alì con un’ammirazione e un’invidia totali, ma Padrona Katia mi afferra forte la testa e mi costringe a guardare lei ed i suoi occhi. “Ora ti darò ad Alì e comincerai a perdere il tuo orgoglio e a scivolare fino in fondo al pozzo della mortificazione. Poi ci penserò io a spingerti ancora più in fondo, quando ti vedrò pronta.” Le sue mani mi accarezzano e la mia pelle è gelata. Mi sfila la camicia e abbassa lo slip. La mia Padrona osserva e scoppia a ridere: “Ti pentirai di rubare i sassolini che i tuoi Padroni ti hanno affidato!” Alì mi prende per mano e mi trascina strattonandomi per scale e corridoi fino a una stanza senza finestre che assomiglia ad una grotta scavata nella terra. “Qui puoi urlare quanto vuoi: nessuno può sentirti!” Vorrei rispondergli che non urlerò, ma so che i miei Padroni non vorrebbero e mi mordo la lingua. Padrona Katia ha parlato della mia arroganza e cerco di comprendere le sue parole. Alì mi appende i polsi ad un argano al centro della stanza e mi costringe ad alzarmi in punta di piedi. La caviglia del piede destro la blocca ad un anello nel pavimento, usando una breve corda elastica che mi offre appena la possibilità di ondeggiare un poco. Al ginocchio sinistro impone una benda rigida che mi impedisce di piegare la gamba, poi lega la caviglia ad una corda che, sempre tramite l’argano, tira fino a costringermi a sollevarla quasi orizzontale. Sembro una grottesca e ballerina sulla punta del piede e con una gamba tesa in avanti. Alì indossa guanti bianchi di plastica e si arma di un bastone simile ad uno scettro che da un capo ha fili di cuoio come un gatto a nove cade e, dall’altro, un manico nero in gomma simile ad un grosso fallo. Ed è con la parte a fallo che mi preme più volte il ventre con colpi forti mentre grida: “Dove sono i sassolini? Più in alto? Più in basso?” Mi tocca, mi tambureggia con colpi veloci e ripetuti che mi tormentano l’intestino. Alì si ferma d’improvviso e sputa per terra: “Non mi piacciono le tette piccole e le fiche rasate. Ma se Katia vuole che mi occupi di te lo farò. E tu sai cosa Katia vuole che ti faccia.” Mi si avvicina a pochi centimetri e mi ringhia addosso in una risata feroce: “Vuole che ti smerdi dei fottuti sassi che ti sei mangiata!” Così comincia la mia discesa all’inferno. La notte è finita. Lentamente sollevo il capo. Nella stanza sono entrati i miei Padroni e Padrona Katia. Ho un gemito di gioia vedendoli ed un fremito di speranza che mi porta a tossire un rivoletto di saliva, sangue e merda. La mia Padrona mi viene vicina e osserva ammirata ed eccitata: “Il tuo Alì ha fatto un lavoro splendido!” Padrona Katia annuisce ed osserva il tavolo su cui Alì ha sistemato i sette piccoli sassi di Vado e diciotto noccioli che erano dentro di me. La mia Padrona batte le mani: “Così sono saltati fuori anche i due mancanti!” Padrona Katia fa un cenno ad Alì che le si inginocchia davanti: “Non c’era altro, Padrona!” “Hai controllato bene?” “Tu lo sai Padrona, io ho fatto come tu volevi!” Padrona Katia sorride e prende uno dei sassolini e lo osserva come fosse un diamante. Alì, dopo avermeli fatti spurgare, mi ha costretto a ripulirli con la bocca e mi ha costretto allo stesso modo a ripulire i noccioli, ma l’umiliazione è anche poca cosa davanti al furore selvaggio con cui ha scavato e ripulito, stimolandolo con centinaia di colpi, il mio intestino. E mi ha violato e violentato come pensavo fosse impossibile sopportare. Penso che resterò per sempre impregnata del viscido puzzolente fetore dei mie escrementi e ne porterò per sempre il sapore nella mia bocca. Il dolore del mie viscere, il dolore dei crampi che mordono le mie gambe ancora grottescamente aperte: nella mia sofferenza so che così è giusto, che è quello per cui ho vissuto. Per questa prova, per la mia vera punizione. Padrona Katia sa tutto quello che passa dentro di me. “Quando ti ho detto che saresti scesa all’inferno, pensavi fosse questo?” Non posso che essere sincera: “No, Padrona Katia.” “Pensavi fosse più profondo?” “No, Padrona Katia!” Mi accarezza senza preoccuparsi se, toccandomi. le sue mani si sporcano della mia lordura: “Eppure questo non è l’infermo. Tu, in questo momento, hai sceso solo il primo gradino.” Impiego qualche istante a capire e, dopo, qualcosa dentro a me esplode in un panico che non ho mai provato prima. Guardo Katia, guardo i miei Padroni e il volto sornione di Alì. “Pietà”, mormoro con voce soffocata perché so che non devo, non posso chiedere, di essere risparmiata. Padrona Katia scuote la testa: “Quando si è su una scala, non si può scendere un solo gradino e poi fermarsi.” Il mio Padrone annuisce, quasi infastidito: “E, allora, cominciamo!” La notte è finita ed i miei Padroni sono alzati. La mia Padrona legge e mi guarda. “Solo questo?” Non so cosa rispondere: “La tua schiava è lenta, Padrona!” “Non hai scritto niente! Ti sei rifiutata di descrivere quello che veramente sei e le tue vere punizioni!” “Non ho potuto, Padrona!” Padrona, Padrone, cercherò di scriverlo. Ma, di nuovo, devo scendere i gradini uno per volta, ed ognuno è già un abisso.


Francazero

fonte: www.smack.org
 
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Cercatore86
view post Posted on 23/10/2007, 14:22




Come possano ridursi a fare certe cose, rimane per me un mistero.
 
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Francazero
icon6  view post Posted on 28/8/2017, 12:05




Finalmente ce l'ho fatta!

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2 replies since 19/10/2007, 23:26   3088 views
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