IL DODICESIMO PIANETA

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view post Posted on 26/11/2007, 23:52




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"Un popolo che non conosce il proprio passato

non può vivere un dignitoso presente 

e tantomeno progettare un futuro sereno"


        Già agli inizi del secolo l’Abate Moreux (2), Direttore dell’Osservatorio Astronomico di Bourges, esemplare figura di studioso che riuscì a coniugare senza preconcetti o dogmatismi Scienza e Fede, dava vita ad una collana di monografie dedicate ai grandi interrogativi che il genere umano da sempre si pone: <<qui sommes-nous? D’où venons-nous? Où allons-nous?>>. Enigmi insoluti, che accompagnano costantemente l’evoluzione dell’Uomo ed ai quali in questa occasione tenteremo di dare alcune interpretazioni: o perlomeno abbiamo la presunzione di riuscire a farlo...

Per buona parte della storia, vale a dire dalle origini fino agli inizi del XX° secolo, l’umano consesso ha sempre individuato nei propri simili, in qualche modo legati alla sfera “religiosa” (stregoni, sciamani o sacerdoti che dir si voglia), i depositari del sapere sia medico che scientifico, attribuendo loro poteri e conoscenze che andavano ben oltre le cose terrene e che venivano inquadrati semplicemente col termine di “misteri”. 

Misteri e poteri: un binomio gelosamente custodito e tramandato, solo in punto di morte, al degno successore, che veniva in tal modo “iniziato” alla conservazione di quei privilegi che gli venivano concessi in virtù di quel patrimonio culturale trasmesso all’Uomo, nella notte dei tempi, dagli “dèi creatori venuti dalle stelle”.

Spesso infatti le vastissime conoscenze, ad es.astronomiche, di quelle civiltà che oggi osiamo ancora definire “primitive” sono dovute, secondo la mitologia degli antichi, agli dèi. Nulla vieta di ipotizzare che gli studiosi di quei tempi fossero giunti autonomamente alle scoperte di cui in seguito faremo cenno (ed in tal caso l’Uomo cosiddetto “moderno” verrebbe ampiamente ridimensionato, in quanto dovrebbe parlare, per quanto lo riguarda, di <<ri-scoperte scientifiche>>); tuttavia resta il fatto che si tratta di conoscenze strabilianti, che forse furono portate sulla terra dal cosmo. Gli dèi erano forse “astronauti”?

Consideriamo insieme alcuni esempi, fra i tanti.

La tradizione dei DOGON (tribù di 250.000 individui che abita la falesia di Bandiagara, a sud del lago Koratou, nel Mali-Africa Occidentale) riferisce che la galassia alla quale appartiene la Terra, la Via Lattea che essi chiamano <<yalu ulo>>, è soggetta ad un movimento spiraliforme: il che, oggi si sa, è esatto.

Il filosofo greco Proclo (410-485 d.C.) rivelava d’aver attinto le proprie informazioni di carattere astronomico proprio dai teologi, i quali erano gli unici ad avere libero accesso alle fonti egiziane e babilonesi: particolare, quest’ultimo, di fondamentale importanza per quanto in seguito andremo ad evidenziare. Lo stesso Proclo, nel commento al Timéo, afferma: <<...In passato erano dello stesso avviso di Platone (per quanto riguarda i movimenti delle stelle fisse) gli Egiziani ed ancor prima i Babilonesi, i quali erano stati istruiti dagli dèi quando non avevano ancora cominciato a dedicarsi a questo studio...>>. Segno indubitabile che le conoscenze astronomiche erano pervenute originariamente, almeno in parte, dalle “stelle”. Agli astronomi babilonesi erano noti infatti i cosiddetti <<corni>> di Venere, quando il pianeta, durante le fasi simili a quelle lunari, appare in forma di falce. Ma ad occhio nudo questi sono invisibili, sicché è lecito chiedersi se non avessero a disposizione, per caso, dei telescopi... Ma c’è di più: i Suméri, quel popolo sorprendente di cui ci occuperemo fra poco, avevano già calcolato migliaia di anni prima di Cristo il tempo impiegato dalla Luna per compiere una rivoluzione, con uno scarto di soli 0,4 secondi !

Ma torniamo ancora per un attimo ai Dogon.

Sirio è un sistema binario di stelle doppie, costituito da Sirio A e dalla sua compagna Sirio B.

Sirio A è una stella di prima grandezza, luminosissima, della costellazione del Cane Maggiore e dista dalla Terra 8,5 anni-luce. Sirio B invece è una nana bianca di grandissima densità e di nona grandezza, quindi di luminosità molto scarsa; non è visibile ad occhio nudo. La sua esistenza fu ipotizzata nel 1848, ma venne confermata visivamente solo nel 1861; si è calcolato che compia un’orbita completa ogni 50 anni circa.

Dopo anni e anni di studi, il linguista Temple e l’antropologo Griaule concordano nell’affermare che i Dogon possiedono una strabiliante conoscenza di Sirio B (che nella loro lingua chiamano PO TOLO, come un cereale dai chicchi minuscoli = Digitaria éxilis), che ancor oggi è fatto oggetto di una strana forma di culto. Durante lo svolgimento di questo cerimoniale i Dogon ripetono quasi esattamente i complessi movimenti orbitari del sistema di Sirio e, dato che lo celebrano ogni 50 anni, ciò coincide con la durata dell’orbita completa intorno alla compagna. Ma non basta: essi affermano, in perfetto accordo con le attuali conoscenze astrofisiche, che Sirio B è la stella più piccola della costellazione, ma anche la più pesante, composta di SAGALA, una materia densissima che starebbe ad indicare il plasma contenuto nelle stelle soggette a una fortissima compressione: un granello di questa sostanza equivale, per i Dogon, al carico di 480 asini ! Soltanto nel 1862 l’astronomo Alvar Clark calcolò che la densità di Sirio B era 170.000 volte superiore a quella dell’acqua: vale a dire che una scatola di fiammiferi del suo materiale peserebbe una tonnellata ! Eppure le maschere rituali fabbricate appositamente per ciascuna festa ed accuratamente conservate fanno risalire le origini dello strano culto al secolo XII, tanto da escludere ogni possibile influenza delle conoscenze astronomiche moderne. Ma allora i Dogon da dove hanno attinto tali informazioni, rivelatesi in seguito così straordinariamente esatte ? Essi non hanno dubbi, quando sostengono categoricamente di <<averle apprese dagli dèi>>, così come sono convinti che l’origine della civiltà provenga dalle profondità degli spazi siderali. Inoltre non collocano Sirio al centro della sua orbita ellittica (o “a uovo”, com’essi dicono), bensì a una distanza focale eccentrica, cosa ch’è stata confermata dall’astronomia moderna. Il fatto che queste notizie siano note ai Dogon da secoli e secoli potrebbe essere una prova ulteriore dell’attendibilità delle loro affermazioni, quando dicono d’averle ricevute dagli “dèi creatori, scesi sulla Terra per portare animali e piante e poi ritornati in volo fra le stelle”.

Ad onor del vero, anche la scienza cosiddetta “ufficiale” ha recentemente ammesso la probabilità dell’esistenza di pianeti abitati, IN PARTICOLAR MODO NEI SISTEMI DI DUE O PIU’ STELLE, com’è appunto il caso di Sirio. A formulare tale convinzione fu l’astronomo ed ingegnere elettronico Bernard Oliver, vicepresidente della Hewlett & Packard Corporation, il quale pubblicò nel 1975 un lavoro dal titolo “Proximity of Galactic Civilizations”. Ma non è tutto: dieci anni prima, il 27 luglio 1965, nel corso di una conferenza stampa tenuta all’American Institute of Aeronautics and Astronautics di S.Francisco, affermò: <<quando si decideranno ad impiantare le necessarie apparecchiature, gli Stati Uniti potranno ascoltare DI NASCOSTO più di una civiltà che si trova altrove nell’universo>>. Era il preludio al “Progetto S.E.T.I.” (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), che prese il via nel 1973 in sostituzione del C.E.T.I. (Communication with E.T.I.) e che prosegue tuttora con l’acrònimo H.R.M.S. (High Resolution Microwave Survey). Ma perché ascoltare “di nascosto” ? Forse per proseguire nella millenaria tradizione, secondo la quale nessun’altro deve essere a conoscenza di determinati “misteri”, se non gli “iniziati” ?

Forse questa corrente di pensiero era ancora in auge negli anni settanta; oggi comunque l’ipotesi che la “vita” non sia del tutto autoctona della Terra, ma sia giunta “dall’esterno”, non è più considerata una stravaganza da parte della scienza ufficiale.

Questa conquista, costellata di disavventure come quelle patite da Galileo nell’affermare la tesi eliocentrica, aveva già avuto nel corso dei secoli numerosi ed altrettanto sfortunati protagonisti: da Giordano Bruno, condannato al rogo nel 1600 come eretico per aver osato difendere la teoria dell’esistenza nell’universo di miriadi di mondi popolati; a Bernard Le Bovier de Fontenelle, che nel 1742 si attirò la derisione dell’Académie des Sciences per aver scritto l’<<entretiens sur la pluralité des mondes>>; dallo svedese Svante Arrhenius, ricordato in ambito scientifico più per la teoria della dissociazione elettrolitica dell’acqua che per l’ipotesi della panspermia cosmica (1910); all’astronomo inglese Fred Hoyle, molto più noto come scrittore di fantascienza che come autore dell’ipotesi cometaria quale veicolo di inseminazione cosmica dell’Universo.

Oggi che i nostri astronauti hanno raggiunto la Luna e le nostre sonde automatiche esplorano altri mondi, oltre i limiti del Sistema Solare, non è più impossibile credere che una civiltà di un altro pianeta, tecnologicamente molto più avanzata della nostra, abbia potuto far scendere sulla Terra nei tempi passati i suoi cosmonauti (gli antichi dèi, “esseri superiori venuti dai cieli”). Non è molto facile, ovviamente, dimostrarlo, tuttavia non è impossibile. 


Ci ha provato ZECHARIA SITCHIN (3), un ebreo russo emigrato prima in Israele e poi negli Stati Uniti, ove attualmente risiede. Laureato in Storia all’Università di Londra, specialista in Archeologia del Medio Oriente, giornalista, docente universitario, linguista e profondo conoscitore della Bibbia, è uno dei rari studiosi in grado di leggere e capire la lingua dei Suméri, l’ebraico antico ed altri idiomi semitici e indoeuropei. Ha studiato per trent’anni il significato originario dei caratteri cuneiformi usati dalle popolazioni mesopotamiche, giungendo a formulare l’ipotesi dell’esistenza di un <<dodicesimo Pianeta>>, che ritornerebbe ciclicamente, ogni 3600 anni, nel nostro Sistema Solare.
Ma prima di addentrarci nell’esposizione della tesi di Sitchin, frenando a stento una comprensibile curiosità, occorre procedere allo studio, ancorché sommario, di uno dei popoli indo-europei più antichi e misteriosi, che ha contribuito in maniera determinante alla formazione delle civiltà del bacino del Mediterraneo: i SUMERI. 
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Per molto tempo, erroneamente, l’Uomo occidentale ha creduto che la sua civiltà fosse un “dono” di Roma e della Grecia. Ma gli stessi filosofi greci (ad es. Platone) ammisero ripetutamente di aver attinto a fonti ancor più antiche, così come fece Solone presso il sacerdote del tempio di Neith durante il suo viaggio a Sais, in Egitto. La stele di Rosetta, rinvenuta casualmente da un ufficiale di Napoleone nel 1799, portava scolpita la medesima iscrizione in tre scritture: greca, latina e geroglifica. Così, una volta decifrata, la lingua egizia rivelò all’incredulo Uomo occidentale che una civiltà evoluta era esistita in Egitto molto tempo prima dell’avvento della civiltà greca. Dunque l’origine della nostra civiltà era in Egitto ? Per quanto tale conclusione potesse sembrare logica, i fatti la smentivano. Da un’ulteriore comparazione tra l’alfabeto ellenico, latino, canaanita-fenicio ed ebraico(4), risulta evidente che le origini della nostra civiltà erano da ricercarsi nel Medio Oriente, in particolare nelle zone un tempo sede degli imperi Assiro-Babilonesi, citati abbondantemente nel Vecchio Testamento. I simboli delle scritture che apparivano sui loro monumenti furono inizialmente considerati semplici fregi ornamentali, che Engelbert Kampfer descrisse come “cuneati”: da qui la definizione di “caratteri cuneiformi” (5). Ma ben presto gli archeologi si resero conto che quelle strane “impressioni” a forma di cuneo non erano affatto fregi ornamentali, bensì costituivano una vera e propria lingua, simile a quella rinvenuta su antichi manufatti e tavolette d’argilla in Mesopotamia (6). Una volta interpretate, queste iscrizioni hanno rivelato il modo di vivere su scala grandiosa, per quei tempi, di quelle popolazioni: le città, ad es., erano dominate da una strana piramide a gradoni chiamata ZIGGURAT, che significa <<casa del collegamento fra il cielo e la terra>> o <<scala verso gli dèi>>, in quanto sulla piattaforma superiore, secondo un’antichissima leggenda, le divinità assumevano natura corporea. E’ fin troppo facile ipotizzare, vista la struttura del manufatto, che in realtà potesse trattarsi di rampe per l’attracco di velivoli spaziali (“collegamento fra cielo e terra”), sulle quali si “manifestavano” gli antichi astronauti (“gli dèi assumevano natura corporea”) (7,8).

In un secondo tempo gli archeologi si accorsero che quelle misteriose iscrizioni erano state impresse sull’argilla umida mediante il ... precursore della moderna rotativa (!): il sigillo cilindrico. Fatto di pietra durissima (es.diorite), si trattava di un cilindretto, dotato di scanalatura centrale, sul quale era stato inciso A ROVESCIO il messaggio o il fregio: ogni volta che veniva fatto rotolare mediante un bastoncino sull’argilla ancora umida, l’impronta che si otteneva formava un’immagine “positiva” (9). Questo ingegnoso sistema di “autenticare” i documenti reali era tipico degli Accadici, popolo della capitale Akkad, citata, insieme con Babilonia e Nìnive, nel LIBRO DELLA GENESI. Ma ancora una volta gli studiosi furono costretti a retrodatare gli albori della civiltà, quando scopersero che la lingua accadica si rifaceva a “testi più antichi” e che lo stesso Ashurbanipal dichiarava di <<essere stato iniziato ai segreti della scrittura e, pertatnto, di saper leggere le complicate tavolette in shumerico e di comprendere le parole enigmatiche scolpite nei tempi prima del Diluvio>> (altra conferma della veridicità della narrazione biblica, come già aveva dimostrato nelle sue opere librarie della prima metà del secolo l’archeologo inglese Sir Charles Marston). Finalmente la ricerca a ritroso del primo regno civile era giunta al termine: l’antico nome della Mesopotamia meridionale era (10) SHUMER; ancora una volta il Libro della Genesi aveva ragione, quando diceva chiaramente che <<...le città reali di Babilonia, Nìnive e Akkad si trovano nella Terra di Shin’ar (Shinar era il nome biblico di Shumer)>>.

Dal nome SUMER, con cui sui testi babilonesi è indicata la Bassa Mesopotamia (dal greco mesoV = nel mezzo; potamoV = fiume: terra posta tra due fiumi, il Tigri e l’Eufrate), deriva il nome del popolo ivi abitante fin dai tempi più remoti (inizi del IV millennio a.C.)(10 bis).

Questo popolo dalle origini “divine” aveva raggiunto un altissimo grado di civiltà: oltre all’invenzione e al perfezionamento della scrittura, senza la quale una grande civiltà non può esistere, ai Suméri deve essere attribuita, in un certo senso, l’invenzione della stampa <<ante lìtteram>>. Millenni prima che Johann Gutenberg inventasse i caratteri mobili, gli scribi sumerici usavano “caratteri” già pronti (quelli incisi a rilievo sui sigilli cilindrici) per imprimere la sequenza desiderata nell’argilla umida, tanto come noi oggi adoperiamo i timbri di gomma. Come il nostro sistema economico, sociale, amministrativo e giudiziario dipende dalla carta, la vita di tutti i giorni per i Suméri dipendeva dall’argilla ed è proprio l’abbondanza di queste documentazioni, incise su di un materiale che ha potuto resistere meglio di qualunque foglio di papiro alle insidie del tempo, che ha costituito la vera “manna” per gli archeologi, più del ritrovamento di qualsiasi ziggurat. 

Fu grande festa allorché Sir Henry Layard ebbe l’incomparabile fortuna di scoprire tra le rovine della biblioteca di Ashurbanipal, a Nìnive, la bellezza di 25.000 tavolette d’argilla, copie di testi ancor più antichi ! 

Fu proprio grazie a queste tavolette, riportanti lo sviluppo “in positivo” di alcuni sigilli cilindrici, che nel 1976 Zecharia Sitchin, incurante delle aspre critiche di cui inevitabilmente sarebbe stato oggetto da parte dei colleghi inquadrati nella dogmatica rigidità universitaria, giunse a formulare la teoria del “Dodicesimo Pianeta”, ripresa di recente in un’altra sua opera dal titolo <<la Genesi>>.

Una in particolare fra queste tavolette si rivelò di fondamentale importanza per i suoi studi: rappresentava l’incisione di un sigillo accadico risalente al III millenio a.C., ora conservato nel Museo di Stato di Berlino col numero di catalogo VA/243 (11). (Per dovere di cronaca, va ricordato che anche il sottoscritto ha potuto maneggiare un sigillo simile, anche se di epoca più recente -1800 a.C.-, ottenendone lo sviluppo su mastice di gomma, in cui è facilmente individuabile la déa ISHTAR assisa sul trono e reggente lo scettro del comando, contornato da una stella a otto punte (12). Una menzione particolare vale la presenza di questa divinità, presenza pressoché costante nella maggior parte dei sigilli accadici, così come in tutte le mitologie delle popolazioni mediterranee, in cui rappresentava la déa-madre, della fecondità e dell’amore: per i Suméri era Inanna, per gli Assiro-Babilonesi, appunto, Ishtar; per i Cananei Astarte; per i Frigi Cibele; per i Greci Afrodite e infini Venere per i Romani).

Ma torniamo al nostro sigillo, in cui viene chiaramente rappresentato il Sistema Solare così come lo conoscevano i Suméri: cioè un sistema consistente di DODICI corpi celesti. Ma quali sono, o meglio erano, per i Suméri i membri del nostro Sistema Solare ? E perché dodici ? 

Se operiamo un ingrandimento del sigillo di Berlino, osserviamo una grande stella radiosa (=a raggi) centrale, il Sole, circondata da undici globi, i Pianeti. Va ricordato che per i Suméri anche la Luna era considerata un pianeta (pianeta, in greco, significa <<errante>>); ma anche con questa aggiunta i conti non tornano. Dovremmo raggiungere infatti il numero di otto corpi celesti (compresi il Sole e la Terra, naturalmente), in quanto, per ciò che riguarda gli altri tre pianeti mancanti, questi non dovevano essere conosciuti a quei tempi. Urano infatti fu scoperto, grazie al perfezionamento dei telescopi, nel 1781, mentre Nettuno e Plutone furono individuati in base a calcoli matematici, osservando le reciproche perturbazioni orbitali derivate dalle influenze gravitazionali, nel 1846 e nel 1930, rispettivamente. Dobbiamo presumere allora che i Suméri conoscevano già, oltre a Plutone che chiamavano GAGA, anche Urano (ANU) e Nettuno (EA). Questi ultimi sono stati avvicinati e fotografati, per la prima e finora unica volta, dalla sonda americana VOYAGER-2, rispettivamente nel 1986 e nel 1989, rivelando che si tratta di pianeti gemelli, il primo di aspetto verde-smeraldo e il secondo azzurro-cobalto: il tutto corrisponde esattamente alla descrizione sumerica di 6.000 anni or sono ! Se potessimo chieder loro come fossero riusciti a raggiungere così repentinamente un tal grado di civiltà, Essi senza dubbio avrebbero pronta una risposta, sempre la stessa, riassunta in una delle migliaia di antiche iscrizioni mesopotamiche venute alla luce: <<tutto ciò che appare bello, noi lo facemmo per grazia degli dèi>>.

Ma di nuovo i conti non tornano: siamo arrivati a undici; chi manca ancora ? L’antica raffigurazione del sigillo accadico mostra un altro pianeta (a noi sconosciuto), notevolmente più grande della Terra ma più piccolo di Giove e di Saturno, inserito in un’orbita a metà circa fra Marte e Giove, occupata attualmente dalla Fascia degli Asteroidi: era - o è - il dodicesimo pianeta, la patria dei NEFILIM. 

Ma CHI erano i Nefilim ?

L’inizio del Capitolo 6° della GENESI costituisce un vero e proprio enigma, che da sempre fa discutere traduttori, teologi e filologi. Riportiamo testualmente il versetto n.° 4: 


Vi erano i Nefilim sulla Terra,

a quei tempi e anche in seguito,

quando i figli degli dèi

si univano alle figlie degli uomini

e queste partorivano loro dei figli.

Essi erano i Potenti dell’Eternità,

il Popolo degli
shem.


I due termini “incriminati” sono quelli sottolineati, cioè Nefilim e shem.

Per molto tempo l’espressione << I Nefilim erano sulla Terra >> è stata tradotta << Vi erano giganti sulla Terra >>; tuttavia traduttori recenti, riconoscendo l’errore ma temendo di suscitare l’irritazione e l’imbarazzo delle autorità ecclesiastiche tradizionalmente conservatrici, hanno preferito risolvere la “querelle” alla Ponzio Pilato, lasciando cioè intatto nella versione il termine ebraico Nefilim. In realtà il termine NEFILIM deriva dalla radice semitica NFL, che significa letteralmente <<venire gettato giù>>: quindi COLORO CHE FURONO GETTATI GIU’ SULLA TERRA!

Ancora: << Il Popolo degli SHEM >> è stato interpretato come << il popolo che ha un nome >>, quindi << famoso >>. In verità il termine semitico shu-mu (mutato in sham o shem o shamaim) deriva dalla radice shamah, che significa << ciò che è rivolto verso il cielo >>, vale a dire << camera o veicolo celeste >>: quindi la frase suona << il popolo dei veicoli celesti >> (9), (9bis).

I teologi contemporanei e i filologi biblici, memori di quanto la Storia insegnò a proposito di Copernico, tendono ad evitare questi versetti “scomodissimi”, spiegandoli “allegoricamente” o addirittura ignorandoli. 

Ma vari scritti ebraici dell’epoca del Secondo Tempio riconoscevano in questi versetti gli echi di antiche tradizioni degli << angeli caduti >>. Malbim, illustre commentatore biblico ebreo del secolo scorso, riconobbe queste antiche radici e spiegò che <<...in tempi remotissimi esistevano degli dèi pagani, figli delle divinità che caddero dal Cielo sulla Terra...ed è per questo che si chiamavano Nefilim, cioè Coloro che Caddero. E i Nefilim erano il Popolo degli Shem, cioè il Popolo dei veicoli celesti >>.

E il dodicesimo pianeta ? Non l’abbiamo perso di vista, non preoccupatevi !

Un dato curioso (e inspiegato) nella storia dell’Uomo resta il fatto che, dopo milioni di anni di sviluppo lentissimo e faticoso, “qualcosa” (o qualcuno?) cambiò completamente ed improvvisamente tutta la situazione evolutiva: e questo avvenne in tre distinti balzi successivi (11.000 - 7.400 - 3.800 a.C.), tutti stranamente intervallati fra loro da un periodo di - guarda caso - 3.600 anni: semplice coincidenza col presunto periodo di ricomparsa ciclica del dodicesimo pianeta all’interno del Sistema Solare? Può darsi, ma la mentalità scientifica di galileiana memoria ci impone, quanto meno, di registrare questi eventi, in attesa di interpretarli.

L’ipotesi che la Terra sia stata visitata da esseri intelligenti provenienti da altri mondi presuppone l’esistenza di un altro corpo celeste sul quale tali esseri abbiano fondato una civiltà più progredita della nostra.

In passato le speculazioni circa la possibilità che la Terra sia stata visitata da entità extraterrestri erano incentrate su pianeti come Marte e Venere quali luoghi d’origine. Tuttavia oggi, quando è ormai certo che, almeno attualmente, questi due vicini planetari della Terra non ospitano né esseri intelligenti né civiltà avanzate, coloro che credono in tali visite hanno cominciato a vedere nelle stelle lontane e nelle altre galassie i luoghi di provenienza degli astronauti extraterrestri.

Tali ipotesi presentano un vantaggio: anche se non è possibile provarle, è altrettanto impossibile confutarle.

Lo svantaggio sta nel fatto che i presunti luoghi di provenienza sono fantasticamente lontani dalla Terra e comporterebbero anni e anni di viaggio alla velocità della luce. Gli autori di queste teorie, perciò, parlano di viaggi di sola andata alla Terra: un gruppo di cosmonauti in missione senza ritorno, o magari un’astronave perduta e sfuggita al controllo, precipitata sul nostro pianeta.

Questa, decisamente, NON è la nozione che avevano i Suméri della Dimora Celeste degli Dèi.

Come lo sappiamo? Ancora una volta ci vengono in aiuto le tavolette d’argilla.

Fra le migliaia ritrovate da Henry Layard, come abbiamo detto, nelle rovine della biblioteca di Ashurbanipal a Nìnive, ce n’erano SETTE (come i giorni impiegati dal Dio ebraico per creare il Mondo) che narravano la storia della Creazione in modo non molto diverso dal Libro della Genesi. Una volta decifrate, furono pubblicate nel 1876 da George Smith col nome di <<the Chaldean Genesis>>, dimostrando l’esistenza di un testo accadico, precedente le Sacre Scritture e scritto in babilonese antico, che narrava la creazione del Cielo, della Terra e dell’Uomo da parte di una divinità: il tutto più o meno come nella Genesi. 

Il documento mesopotamico, chiamato da King <<the Seven Tablets of Creation>> ed oggi conosciuto come 

<<l’Epica della Creazione>>, è per noi un’autentica miniera cosmogonica, che narra gli avvenimenti astronomici primordiali relativi alla formazione del nostro Sistema Solare e che ora cercheremo, nei limiti del possibile, di sintetizzare al massimo; senza dimenticare che i “tempi” di cui si parlerà sono da intendersi ben più lunghi anche di quelli “biblici” (nell’ordine di miliardi di anni...).

All’inizio dei tempi esisteva unicamente il Sole (AP.SU=che esiste dal principio), Mercurio (MUM.MU) e TIAMAT, un secondo pianeta più grande di Mercurio (13). In un secondo tempo si formano altri due pianeti “interni”, Venere e Marte (sappiamo dall’Astronomia che i pianeti sono il prodotto di condensazione e raffreddamento del plasma stellare scagliato nello spazio dal Big-Bang iniziale). Ancora oltre si formano i pianeti giganti o “esterni” (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) (14) e qui troviamo la prima sorpresa: i Suméri classificavano Plutone (GAGA) non come pianeta indipendente, ma come satellite di Saturno; e vedremo in seguito che le recenti osservazioni della NASA consentono di dar loro ragione...

A questo punto abbiamo il Sole e nove corpi celesti (Plutone, anche se satellite, viene conteggiato alla stregua di pianeta): Terra e Luna non esistono ancora.

Ed ecco che, a guisa del “deus ex machina” delle tragedie elleniche, irrompe nello scenario cosmico ancora in fase di comprensibile assestamento il vero protagonista di tutti i nostri sforzi interpretativi: MARDUK (re dei Cieli) o NIBIRU, “il pianeta dell’attraversamento”; benvenuto, Dodicesimo Pianeta!

Come si può facilmente intuire, questo grande pianeta, dalle dimensioni appena inferiori a quelle di Giove ma ancora in formazione (eruttava fuoco e lampi elettrici, tanto da essere chiamato anche <<colui che illumina>> e <<figlio del Sole>>), non apparteneva al Sistema Solare, ma si avvicinava ad esso dalla direzione orbitale opposta, provenendo in senso orario dallo spazio profondo. Un po’ quello che succede, ogni tanto, anche ai giorni nostri, allorché una cometa o un asteroide incrociano l’orbita terrestre: ma di questo parleremo più avanti.

Forse la traiettoria originale di Marduk non avrebbe creato grossi scompigli nel Sistema Solare (15); senonché le attrazioni gravitazionali di Nettuno prima, poi di Urano (che gli “strappa” quattro satelliti) e infine di Saturno e Giove (che gliene “strappano” altri tre, per un totale di sette) riescono ad incurvare sempre di più il suo percorso, orientandolo verso l’interno e dirigendolo verso il centro, contro Tiamat. Man mano che si avvicina a Tiamat, Marduk, avendo maggior massa, gli “strappa” undici satelliti, tra cui il maggiore KINGU.

Pur essendo in rotta di collisione, i due pianeti NON si scontrarono, o perlomeno non direttamente: furono i satelliti di Marduk a collidere con Tiamat, incrinandolo profondamente ed aprendovi un’enorme fenditura (16).

Dieci degli undici satelliti di Tiamat, tranne KINGU, furono “sparati” nello spazio, lontani dal Sole, in orbite estremamente ellittiche, dando così origine, secondo i Suméri, al fenomeno delle Comete. Gli astronomi ancora non sanno ben spiegare quale forza, quale evento cosmico abbia creato le comete e le abbia lanciate nelle loro strane orbite. Questi agglomerati di roccia, polvere, ghiaccio e gas, dal nucleo abbastanza modesto rispetto alla lunghezza della chioma, sono indicati come <<i membri ribelli>> del Sistema Solare, perché sembrano non obbedire alle regole: le orbite dei pianeti intorno al Sole sono quasi circolari (tranne Plutone, per i motivi che diremo), mentre quelle delle comete sono quasi sempre enormemente allungate, tanto che alcune di esse ritornano visibili dopo centinaia o migliaia di anni. Inoltre le orbite delle comete appartengono a piani diversi, mentre quelle dei pianeti (sempre con l’eccezione di Plutone) giacciono più o meno sullo stesso piano. Infine questi ultimi ruotano attorno al Sole con moto antiorario, al contrario di molte comete. 

Da quel momento, ovviamente, Marduk fu “costretto” dall’attrazione gravitazionale del Sistema Solare, che ne aveva modificato la traiettoria, a ritornare sempre nel punto della collisione, anche se con un’orbita estremamente ellittica, che lo porta in afelio ai confini più remoti del nostro Sistema (17).

E’ al primo passaggio dopo questi eventi che si innesta la narrazione della Genesi biblica.


imageCompletata la sua prima orbita intorno al Sole, Marduk si riavvicinò inesorabilmente a ciò che restava di Tiamat. Ci fu una nuova collisione e Tiamat, già malconcia dal precedente impatto, fu definitivamente spaccata in due (18). Una delle due metà si scontrò subito dopo con uno dei satelliti di Marduk e fu spinta in tal modo in una nuova orbita (tra Venere e Marte), dove prima non vi era alcun pianeta, originando così un nuovo corpo celeste: la Terra; il satellite principale dell’ex-Tiamat, Kingu, segue questa metà e diviene l’unico satellite della neonata Terra: la Luna. Alla luce di questa interpretazione possiamo quindi giustificare il perché i continenti della Terra sono tutti concentrati in un emisfero, mentre in quello opposto esiste solo una profondissima depressione, l’oceano Pacifico.

L’altra metà di Tiamat, durante il secondo passaggio di Marduk, viene da questo frantumata e diventa la Fascia degli Asteroidi (o il Braccialetto Martellato dei Suméri), posta tra Marte e Giove, quasi a fungere da “schermo” tra i pianeti interni e quelli esterni (19). 

Gli astronomi e i fisici riconoscono l’esistenza di grandi differenze fra i pianeti interni e quelli esterni: i primi (Mercurio, Venere, Terra e Marte) sono corpi relativamente piccoli, solidi, privi di atmosfera o con atmosfera molto sottile; i secondi (Giove, Saturno, Urano e Nettuno) sono giganti gassosi dotati di atmosfera molto estesa. 

Inoltre hanno cercato per decenni, ma inutilmente, le prove della passata esistenza di un pianeta tra Marte e Giove, nella zona attualmente occupata dalla Fascia degli Asteroidi, in ottemperanza alla Legge di Bode, secondo la quale i pianeti sono collocati a distanze ben precise dal Sole. Ma tra l’orbita di Marte e quella di Giove, dove secondo i calcoli dovrebbe essercene uno, ci sono ... solo 4.000 asteroidi, senza alcun dubbio i resti di un pianeta andato in frantumi: quello che gli astronomi russi hanno chiamato Phayton (<<carro>>). Tutti gli scienziati concordano nell’affermare che quel pianeta doveva esistere, ma non sono in grado di spiegarne la scomparsa. Il pianeta esplose da sé? In questo caso i frammenti sarebbero stati scagliati in ogni direzione e non raggruppati in un’unica fascia. 

E Plutone? Questa piccola “stranezza gelata”, sul limite esterno del Sistema, possiede un’orbita estremamente eccentrica, il cui piano è fuori squadro di ben 17° rispetto a quella di tutti gli altri pianeti: per questo è l’unico ad attraversare l’orbita di un altro, Nettuno. Per grandezza, Plutone appartiene alla classe dei “satelliti”: il suo diametro infatti (3000 km.) non differisce molto da quello di Tritone (satellite di Nettuno) o di Titano (satellite di Saturno); è comunque più piccolo della nostra Luna (3476 km). Date le sue enigmatiche caratteristiche, è stata avanzata l’ipotesi che questo “spostato” abbia iniziato la sua esistenza celeste come satellite e che poi, sfuggito al suo “padrone”, si sia messo “in proprio” in orbita attorno al Sole. Ma tutto questo i Suméri lo sapevano già: evidentemente gli sconvolgimenti planetari susseguiti alla distruzione di Tiamat ed all’inserimento di un nuovo corpo celeste in un’orbita ulteriore provocarono un momento d’instabilità gravitazionale, sufficiente a distaccare Gaga da Saturno e a conferirgli un piano orbitale indipendente. 

Ma torniamo a Marduk: se la sua orbita lo porta dove un tempo era Tiamat, cioè tra Marte e Giove, perché non abbiamo ancora visto questo pianeta, che dovrebbe essere grande e luminoso? Probabilmente perché, come le comete, è inserito in una grande orbita ellittica: il centro di gravità ed uno dei fuochi corrispondono al Sole; il perigeo e il perielio, ovviamente, coincidono; mentre l’apogeo e l’afelio si trovano a circa 1800 anni dal centro del nostro sistema, il che porterebbe il dodicesimo pianeta oltre sei volte più lontano da noi di Plutone: una distanza tale da renderlo invisibile dalla Terra, perché rifletterebbe pochissimo la luce solare (20). Ricordiamo infatti che i pianeti oltre Saturno furono scoperti dapprima non visualmente, bensì matematicamente: le orbite dei pianeti fino ad allora conosciuti, constatarono gli astronomi, erano apparentemente influenzate da altri corpi celesti.

Abbiamo detto che le credenze religiose ed astronomiche del mondo antico, precedenti l’epoca ebraico-cristiana, consideravano il Dodicesimo Pianeta come <<il Pianeta degli Dèi>> e ritenevano che la sua grande orbita lo riportasse periodicamente nei pressi della Terra, rendendolo così visibile all’umanità. Per i Suméri, il segno pittografico che nei caratteri cuneiformi individuava <<il Pianeta dell’Attraversamento>> era UNA CROCE, il cui simbolo significava anche <<divino>>; in seguito nelle lingue semitiche diventò la lettera TAV, che vuol dire <<il segno>>: e questo prima ancora che l’iconografia cristiana identificasse nella <<tau>> greca la simbologia del martirio di Cristo e, di conseguenza, della religione stessa: qualcosa di più delle “solite” coincidenze? (9) Molti testi mesopotamici, tanto come alcuni profeti biblici (Isaia, Amos, Zaccaria, Gioele), parlano dell’apparizione periodica del Dodicesimo Pianeta, <<il grande pianeta dall’aspetto rosso-scuro>>, come di un evento previsto, prevedibile ed osservabile; foriero di grandi sovvertimenti e di nuove ere, ma anche di piogge e inondazioni, come si sa che producono i forti effetti gravitazionali. L’attesa del <<giorno del Signore>> negli antichi scritti mesopotamici ed ebraici era quindi basata su esperienze autentiche del popolo della Terra: gli umani, nella notte dei tempi, avevano veramente assistito al ritorno periodico del Pianeta della Sovranità nei pressi del nostro mondo. 

L’apparizione e la sparizione periodica di Marduk dalla vista della Terra conferma la sua permanenza in un’orbita solare, come accade per molte comete. Alcune di esse (come la celebre Halley, che si avvicina alla Terra ogni 75 anni) possono essere ricordate, per i più fortunati, anche a memoria d’uomo, mentre per altre (es. la Kohoutek, scoperta nel 1973), se ne riparlerà tra 75.000 anni!

D’altronde anche i nostri astronomi “moderni” hanno già avanzato l’ipotesi che esista un <<pianeta X>>.

Nel 1972 Joseph Brady, del Lawrence Livermore Laboratory dell’Università della California, scoprì che le discrepanze nell’orbita della cometa di Halley potevano essere causate da un pianeta delle dimensioni di Giove che orbitasse intorno al Sole in 1.800 anni, alla distanza di 9 miliardi di km., la cui esistenza poteva essere dimostrata solo matematicamente. Ebbene, la conferma non si è fatta attendere più di tanto: a soli 20 anni di distanza (l’avverbio “solo”, per le dimensioni astronomiche, è d’obbligo!), il gruppo di studio sul sistema solare del Massachusetts Institute of Technology ha cominciato ad identificare una trentina (dal 1992 ad oggi) di nuovi corpi celesti, situati a una distanza dal Sole superiore a quella di tutti i pianeti, nel “sistema solare esterno” o “fascia di Kuiper”, cosiddetta in onore dell’astronomo olandese che nel 1951 propose per primo la teoria che il sistema solare non sia limitato ai nove pianeti conosciuti. 

Ma perché un ritorno ciclico proprio ogni 3600 anni?

Fonti mesopotamiche e bibliche presentano forti indizi che il periodo del Dodicesimo Pianeta sia di 3600 anni.

Il numero 3600 era rappresentato, in sumerico, come un grande cerchio; l’epiteto del pianeta - SHAR (<<supremo sovrano>>) - significava anche <<un cerchio perfetto>>, <<un ciclo completato>>: l’identità fra questi tre termini (pianeta-orbita-3600) non poteva essere una semplice coincidenza. 

Se accettiamo l’ipotesi che sul pianeta Marduk, o Nibiru che dir si voglia, la Vita abbia avuto origine, rispetto ai 4.500.000.000 di anni della Terra, anche solo con un anticipo dell’1%, ciò significa che vi iniziò circa 45 milioni di anni prima che sul nostro pianeta: anche con questo margine “modesto”, esseri evoluti quanto l’Uomo sarebbero già stati presenti sul Dodicesimo Pianeta quando i primi minuscoli mammiferi cominciavano ad apparire sul nostro mondo. Di conseguenza, nulla vieta di pensare che i suoi abitanti conoscessero il volo spaziale 500.000 anni or sono: ed infatti è circa nel 450.000 a.C. che Sitchin colloca il primo atterraggio dei Nefilim o <<popolo dei Razzi Fiammeggianti>> sul nostro mondo.

Tutte queste documentate argomentazioni renderebbero ragione alla summenzionata teoria della <<panspermia cosmica>>, iniziata dalla corrente “stoica” dei filosofi greci e ripresa ai giorni nostri, come s’è detto, dai Premi Nobel Arrhenius e Crick e dagli astronomi Hoyle e Wickramasinghe, i quali, senza conoscere l’antichissima tradizione sumerica, avevano avanzato l’ipotesi che la vita sulla Terra fosse derivata da microrganismi provenienti da altri pianeti. L’unica differenza consisterebbe nel fatto che la “semina” non sarebbe stata intenzionale (da parte di esseri intelligenti) o naturale (come diretta ed ineluttabile conseguenza d’un disegno cosmico), bensì del tutto accidentale, in seguito cioè ad una collisione celeste: un pianeta già portatore di vita, anche se agli albori, il Dodicesimo, scontrandosi con Tiamat e spaccandola in due, trasmise ad una sua metà il germe della Vita. 

Abbiamo già evidenziato come la marcia dell’Uomo verso la civiltà passò attraverso tre stadi, separati da periodi di 3.600 anni: il periodo Neolitico (circa 11.000 a.C.), la fase del “vasellame” (circa 7.400 a.C.) e l’improvvisa civiltà sumerica (circa 3.800 a.C.). Non è assurdo, quindi, ipotizzare che tali “balzi” nella storia evolutiva del genere umano siano stati “favoriti” dall’intervento dei Nefilim, i quali, accortisi che anche su quel piccolo pianeta cui si approssimavano ogni 3600 (nostri) anni si era sviluppata la Vita, decisero di scendere su di esso ad ogni passaggio per controllare periodicamente il progresso dell’Umanità ed insegnarle a <<guardare i cieli>> (come Yahweh esortò Abramo), portando le prime conoscenze di astronomia e matematica celeste.

Invocando i simboli celesti (<<divini>>), l’Uomo non si sentiva più solo: i simboli collegavano i terrestri ai Nefilim, la Terra al Cielo, l’Umanità all’Universo. Non c’è quindi da stupirsi se le sculture e i disegni sumerici più antichi portano simboli celesti di costellazioni e pianeti, questi ultimi contrassegnati quasi tutti da numeri: la Terra corrisponde al numero sette, Venere all’otto (cfr. la simbologia della déa Ishtar), Marte al sei, Saturno al quattro; perché ? 

Nel 1971 la NASA lanciò la sonda PIONEER 10, destinata, oltre la sua missione, ad uscire dal Sistema Solare: i nostri scienziati, nell’ipotesi che un giorno possa venire a contatto con un’altra civiltà, inserirono a bordo una placca in oro recante inciso un “messaggio” pittografico: il maschio e la femmina della razza umana, il simbolo dell’atomo di idrogeno e la raffigurazione del nostro Sistema Solare, costituito dal Sole e da nove pianeti, in cui la Terra viene indicata come occupante la TERZA posizione (21). Ciò corrisponde al vero, se si inizia a contare dal centro; ma per chi giungesse dall’ESTERNO, il primo corpo celeste sarebbe Plutone, il secondo Nettuno, il terzo Urano (e non la Terra), il quarto Saturno, il quinto Giove, il sesto Marte e così via. La Terra sarebbe il settimo: nessuno, eccettuati gli abitanti del Dodicesimo Pianeta, avrebbe potuto considerare la Terra <<il settimo pianeta>>...

I quattro rimanenti corpi celesti (Luna, Venere, Mercurio e Sole) per i Sumeri erano situati in una zona che chiamavano GIR.HE.A (<<acque celesti ove i razzi si confondono>>), MU.HE (<<confusione dei veicoli spaziali>>), UL.HE (<<fascia della confusione>>). Questi termini sconcertanti hanno un senso solo se pensiamo ai Nefilim come a viaggiatori spaziali: solo di recente gli ingegneri della COMSAT (Communications Satellite Corporation) hanno scoperto che il Sole e la Luna <<imbrogliano>> i satelliti e li <<spengono>>. Infatti i satelliti in orbita terrestre possono essere temporaneamente inattivati dal flusso di particelle provenienti dalle “eruzioni” solari o da mutamenti di riflessione della radiazione infrarossa da parte della Luna: anche i Nefilim sapevano che le navi spaziali entravano in una “zona di confusione”, quando superavano la Terra e si avvicinavano al Sole!

I Nefilim, come preciseremo in seguito, potevano scendere sulla Terra solo se le loro astronavi venivano lanciate dal Dodicesimo Pianeta molto prima che questi giungesse nei pressi della Terra; pertanto potevano attraversare l’orbita di Plutone non solo come abitanti del Dodicesimo Pianeta, ma anche come astronauti a bordo di una nave spaziale in movimento. Il primo corpo celeste che incontravano in avvicinamento al Sistema Solare era dunque Plutone, che un testo astronomico mesopotamico chiama anche SHU.PA (<<supervisore della Parte Suprema>> del Sistema Solare), in prossimità del quale <<il dio Enlil fissava il destino per la Terra>> (= dove veniva stabilita la rotta precisa per il pianeta Terra). Oltre Plutone si incontrava Nettuno, detto IRU (<<cappio>>), in cui probabilmente la nave spaziale iniziava a descrivere l’ampia curva (= cappio) verso l’obiettivo finale. Ma occorreva fare molta attenzione al passaggio in prossimità di Saturno (TAR.GALLU = il grande distruttore), il pianeta gigante, dieci volte più grande della Terra, la cui tremenda attrazione gravitazionale causò, con buona probabilità, la prima “tragedia dello spazio”: un’astronave con cinquanta cosmonauti (ANUNNAKI) andò perduta. Questo secondo un antichissimo testo sumerico, la cui decifrazione fu pubblicata nel 1912. Nei pressi di Giove (SAG.ME.GAR. = il grande, ove si allacciano le tute spaziali; ME = tuta spaz.), si curvava ulteriormente per entrare nella pericolosa fascia degli asteroidi, prima di giungere a Marte (SHELIBBU = <<uno vicino al centro>>, del Sistema Solare). Fantasie di archeologi controcorrente ?

Non più di tanto, poiché anche in questo caso la fortuna, sotto forma della solita tavoletta, ci viene in aiuto. 

Il 9 gennaio 1880 venne presentata alla British Royal Astronomical Society quella che potrebbe definirsi l’equivalente, all’inverso, della nostra placca metallica posta sul Pioneer 10: una tavoletta d’argilla trovata fra le rovine della Biblioteca Reale di Nìnive, copia assira di un antico originale sumerico. A differenza di tutte le altre, è un DISCO inciso a caratteri cuneiformi, alcuni dei quali perfettamente conservati: i filologi che l’hanno studiato sono giunti alla conclusione che si tratta del <<documento mesopotamico più sconcertante>> (22).

Sembra essere un planisfero, suddiviso in otto segmenti di 45° ciascuno, per un totale di 360°, che riporta incisi numerosi dati astronomici: un’ellisse (funzione matematico-geometrica ritenuta sconosciuta in tempi così antichi), costellazioni, corpi celesti ed un punto focale, ubicato nel cielo babilonese dell’epoca (sappiamo che, per il fenomeno della precessione degli equinozi, l’osservazione della volta celeste da un punto fisso muta di 23° ogni 25.000 anni). Il tutto sembrerebbe indicare una “mappa della rotta”, che i Nefilim seguivano per giungere dal loro pianeta al nostro.

Considerando che il Dodicesimo Pianeta e la Terra erano corpi celesti in movimento continuo, i Nefilim dovevano dirigere i loro veicoli spaziali non verso il punto ove si trovava la Terra al momento del lancio, bensì verso quello dove si sarebbe trovata al momento dell’arrivo. Si può presumere quindi che essi sapessero calcolare con sicurezza le traiettorie, più o meno come gli scienziati d’oggi preparano le missioni per la Luna e gli altri pianeti.

Le cosmonavi dei Nefilim venivano probabilmente lanciate dal loro pianeta nella direzione dell’orbita del pianeta stesso, ma molto prima che quest’ultimo giungesse nei pressi della Terra. Due traiettorie alternative sono state calcolate da Amnon Sitchin, dottore in ingegneria aeronautica presso la NASA e fratello dell’autore.

(24) La prima richiederebbe il lancio quasi in concomitanza dell’apogeo del Dodicesimo Pianeta; il che non richiederebbe eccessiva energia, in quanto si tratterebbe più che altro di “rallentare”. La seconda, che probabilmente è quella scelta, prevede il lancio a metà strada circa tra l’apogeo ed il perigeo, inserendo l’astronave-madre in orbita di parcheggio intorno alla Terra e sganciando un modulo più piccolo destinato all’atterraggio: la stessa metodologia delle missioni lunari. Per ritornare poi sul pianeta errante, che nel frattempo starebbe transitando al perigeo fra Marte e Giove alla sua massima velocità, esistono solo tre punti sull’orbita di parcheggio adatti ad intraprendere la spinta direzionale, che consentono di raggiungere il pianeta in un periodo compreso tra 1,1 e 1,6 anni terrestri.

L’Epica della Creazione (che, come abbiamo già visto, è l’equivalente babilonese della Genesi biblica) narra che i Nefilim attesero che il suolo della Terra si prosciugasse e s’indurisse a sufficienza da permettere l’atterraggio ed i lavori di costruzione del primo avamposto della loro seconda patria, la città di E.RI.DU. (=la casa costruita lontano); questo avvenne presumibilmente in era glaciale (uno dei periodi di congelamento e disgelo del clima terrestre):

PRIMA GLACIAZIONE: iniziata circa 600.000 anni fa

PRIMO DISGELO (periodo interglaciale): 550.000 anni fa

SECONDO PERIODO GLACIALE: da 480.000 a 430.000 anni fa

La scelta cadde sulla Mesopotamia in quanto assomma tutte le condizioni adatte all’insediamento di una colonia: si trova in pianura, fertile per la presenza di due grandi fiumi, che costituiscono anche vie di comunicazione e trasporto (ricordiamo che nella Genesi la dimora di Dio sulla Terra è chiamata EDEN, che deriva dall’accadico edinu e significa PIANURA); è ricca di petrolio, di cui i Nefilim facevano largo uso (nell’antico Sumer, oggi Iraq meridionale, i bitumi, gli asfalti, le peci e i catrami gorgogogliavano o scorrevano naturalmente in superficie) ed è equidistante da due mari (il Mediterraneo ad Ovest ed l’Oceano Indiano a Sud), il che poteva agevolare l’ammaraggio delle capsule spaziali anche in caso d’emergenza. Sì, perché alcuni indizi suggeriscono che, almeno nei primi tempi, i Nefilim atterrassero in mare, a bordo di capsule stagne, con uno splash-down del tutto simile a quello dei nostri astronauti. Non si spiegherebbe altrimenti il mito degli strani <<uomini-PESCE>> (OANNES) (25), presente, così come quello del diluvio universale, in molte tradizioni incise e scritte degli antichi popoli mediterranei e tramandateci attraverso le cronache del grande storico caldeo Beroso. Questi scrisse che <<i divini uomini-pesce>> apparivano periodicamente dal “Mare Eritreo che confina con la Babilonia” (oggi Mare Arabico) (26). 

Quando i cambiamenti climatici resero più accessibile l’entroterra e le paludi cominciarono a ritirarsi, i Nefilim abbandonarono la tecnica degli “splash-downs” e crearono un “Centro Controllo della Missione” sulla terraferma, su cui atterrare e decollare. Alla fondazione di E.RI.DU, la prima colonia dei Nefilim , <<patria lontano dalla patria>> su di un pianeta alieno e semigelato, seguirono altre sei città (27), oggi tutte localizzate e curiosamente tutte insediate lungo un corridoio formante un angolo di 45° (+/- 6°) (28) con un ipotetico meridiano passante per Sippar (presunto spazioporto) e per il Monte Ararat, che poteva fungere per chi proveniva dallo spazio da ottimo punto di riferimento, col suo massiccio di 1500 m. di altitudine (con vette di 5.000 m. perennemente innevate), posto tra due grandi laghi ed esteso per 40 km. (29).

Perché ai Nefilim interessava tanto scendere sulla Terra? Jensen, illustre archeologo tedesco, dichiarò candidamente nel 1890: <<non so perché, ma avevano a che fare con i metalli>>; è un’ipotesi più che plausibile, se consideriamo che i nostri scienziati oggi affermano che “...una ragione valida per fondare colonie su altri pianeti potrebbe essere la presenza su quei corpi celesti di minerali rari o troppo dispendiosi da estrarre sulla Terra...”. 

Un lungo testo accadico, erroneamente sottovalutato perché ritenuto a sfondo mitologico, narra di periodici viaggi degli “dèi” in una terra molto lontana, a 100 beru d’acqua ( = oltre 200 ore di navigazione, circa tremila o quattromila km.), situata a sud-ovest di Sumer, chiamata A.RA.LI ( = il luogo delle lucenti pietre metalliche) ed anche AB.ZU (da cui il greco abussoV, il cui ideogramma corrispondeva a un profondo scavo nella terra, sovrastato da un pozzo (30). Un viaggio di questo tipo, via mare con partenza dal Golfo Persico, porta alle coste dell’Africa meridionale: e infatti molti sigilli cilindrici raffigurano animali tipici di quella zona (es. la zebra e lo struzzo), scene della giungla e capi-tribù che portano pelli di leopardo (31).

Quella terra lontana, dove gli “dèi” lavoravano con <<l’Ascia d’Argento che splende come il giorno>> (laser?), 

era anche conosciuta come quella “ove le Pietre Azzurre causano mali”: si trattava del cobalto radioattivo, di cui il territorio è ricco ?

Due scienziati sudafricani, Boshier e Beaumont, su incarico della società mineraria Anglo-American Corporation, condussero una serie di scavi sistematici nello Swaziland meridionale e scoprirono, increduli, resti umani, manufatti e attrezzi riconducibili ad attività minerarie estrattive, risalenti, mediante datazione con radiocarbonio, al 41.250 a.C., con un errore di 1600 anni +/- ! Commentando l’incredibile scoperta, il Dr. Oakley, capo antropologo del Museo di Storia Naturale di Londra, dichiarò che <<...quella poteva risultare la nascita dell’ Homo sapiens...>>. 

L’Epica della Creazione spiega che gli Anunnaki (che in accadico significa “i cinquanta che andarono dal Cielo alla Terra”) erano quella parte dei Nefilim che scendeva sul pianeta, a differenza degli Igigi che rimanevano sulla nave-madre in orbita di parcheggio. Costoro erano deputati a compiere i più svariati lavori: erigere dighe, bonificare paludi, scavare canali e, una volta localizzati i giacimenti di oro, argento e rame nel Corno d’Africa, dedicarsi soprattutto alle attività estrattive che, anche se condotte con l’ausilio di sofisticate attrezzature, era pur sempre, come si può ben capire, il lavoro più pesante e per questo aborrìto: <<...mangiavano cibo misto ad argilla e bevevano acqua inquinata di polvere...>>.

Così un bel giorno gli Anunnaki si ribellerano con violenza ed il Capo, inviato dalla stazione orbitante per sedare la sommossa, ritornò a bordo per presentare le sue dimissioni, non essendo riuscito a trovare il “provocatore” dell’insubordinazione. Ma inaspettatamente il Capo Supremo si schierò con gli Anunnaki:

<<il lavoro è pesante e la fatica molta; ogni giorno noi abbiamo udito le loro lagnanze!>>.

Così fu proposto di creare un lulu , un <<lavoratore primitivo, letteralm.= uno che è stato mescolato>> e <<uomo>> fu il suo nome: in un luogo “simile ad un ospedale” la “levatrice degli dèi” preparò la “mistura” con cui venne foggiato l’Uomo.

Così i Nefilim, giunti sulla Terra per fondarvi le loro colonie, avrebbero creato un sistema di schiavitù, non di schiavi importati da altrove, ma con i Lavoratori Primitivi prodotti da loro stessi: un ammutinamento di “dèì” avrebbe portato alla creazione dell’Uomo: questo, almeno, sempre secondo Sitchin !

Questa singolare ipotesi sulla creazione dell’Uomo tramandataci dai Sumèri può sembrare a prima vista in contraddizione sia con la teoria dell’evoluzione di Darwin che con le tradizioni ebraico-cristiane basate sulla Bibbia. In realtà è solo dando credito alle informazioni contenute nei testi sumerici che può essere confermata sia la validità della teoria dell’evoluzione sia l’attendibilità della narrazione biblica, a dimostrazione (fosse la volta buona!) che non c’è conflitto tra l’una e l’altra, anzi, si spiegano e si completano a vicenda: in medio stat virtus, dicevano i latini.

Per lungo tempo l’occidente, legato alla concezione cristiana del mondo, restò fedele al dogma che l’Uomo fosse stato creato deliberatamente e posto sulla Terra, unico corpo celeste abitato, per dominarla e sottometterne le creature. Ma già nel 1788 questa visione prettamente egocentrica ricevette la prima spallata, quando illustri geologi ipotizzarono che la Terra fosse ben più antica dei 5.500 anni calcolati dal calendario ebraico.

Eppure ancor oggi persistono frange integraliste che si oppongono all’evidenza dei fatti: è di pochi anni fa la notizia che i rabbini israeliani ottennero il ritiro dal mercato di confezioni di latte per bambini sulle quali comparivano figure di dinosauri, che per la Paleontologia risalgono a milioni di anni or sono ! 

Nel 1859 scoppiò la “bomba” Darwin, cui la Chiesa reagì energicamente; eppure il concetto di evoluzione non era poi così esplosivo e nemmeno nuovo: già nel IV secolo a.C. i Greci avevano compilato dati sull’evoluzione della flora e della fauna ! In seguito la rigidità delle autorità ecclesiastiche cominciò a smorzarsi, anche perché si cominciò a comprendere che, se prese alla lettera, le parole della Genesi potevano rendere insostenibile la versione biblica: ad esempio, il termine Elohim è un plurale e andrebbe tradotto <<gli dèi>> e non <<dio>>: a meno che non abbiano ragione i Suméri...

Ma allora l’Uomo è solo una <<scimmia priva di pelo>> e i lemùridi diverranno umani, perdendo la coda ed acquisendo la stazione eretta ? La risposta non è così semplice.

L’evoluzione può spiegare il corso generale degli eventi che fecero sviluppare la vita e gli esseri viventi sulla Terra, dal più semplice organismo unicellulare fino all’Uomo, ma non potrà mai giustificare la comparsa dell’Homo sapiens, che avvenne “da un giorno all’altro”, in confronto ai milioni di anni che l’evoluzione richiede; per di più senza alcuna evidenza di fasi precedenti (il cosiddetto “anello mancante”) che indicassero un passaggio graduale, partendo dall’Homo erectus. In altre parole, l’ominide del genere Homo è un prodotto dell’evoluzione, ma l’Homo sapiens è il prodotto di un evento improvviso e innovativo, comparso inspiegabilmente circa 300.000 anni fa, milioni di anni troppo presto rispetto all’albero genealogico evolutivo.

Gli studiosi non sanno dare una spiegazione, ma i testi sumerici e babilonesi la conoscono: l’Homo sapiens, l’uomo moderno, fu creato dagli antichi “dèi”; quando ?

I testi mesopotamici narrano che gli Anunnaki si ribellarono <<...dopo 40 periodi di lavoro ininterrotto...>>.

Il termine accadico <<ma>> (periodo) significa letteralmente <<qualcosa che si completa e poi si ripete>> ed è stato tradotto <<anno>; tuttavia va inteso non come anno terrestre, ma come uno <<shar>>, cioè un’orbita del pianeta dei Nefilim, equivalente a 3.600 anni terrestri. Moltiplicando 40 per 3.600, otteniamo 144.000 anni e se confermiamo l’ipotesi che i Nefilim giunsero sulla Terra per la prima volta circa 450.000 anni fa, otteniamo circa 300.000 anni, data della presunta creazione dell’Uomo, ottenuta presumibilmente mediante la manipolazione genetica di un substrato preesistente, recettivo e biologicamente compatibile: l’Homo erectus. 

Anche il Vecchio Testamento concorda in alcune parti con la più antica versione sumerica: Adamo, il nome del primo uomo creato da Dio, significa in ebraico <<argilla>> e sta chiaramente ad indicare una “sostanza preesistente”, così come Eva, la prima donna biblica, fu creata da una “costola” di Adamo. In sumerico il termine TI significa <<costola>> ma anche <<vita>>, a conferma del fatto che Eva era costituita della stessa “essenza vitale” di Adamo.

Dopo la creazione dei primi due rappresentanti della nuova specie, sia il Libro della Genesi che l’Epica di Gilgamesh, testo accadico anteriore, concordano quasi perfettamente nella descrizione delle vicissitudini dei nostri lontani progenitori: la disubbidienza alla disposizione divina relativa all’Albero della Conoscenza (32)(33)(34) (acquisizione della facoltà di riprodursi autonomamente, sganciandosi dalla clonazione e quindi dal controllo diretto dei Nefilim?), l’espulsione dall’Eden (revoca dell’immortalità biologica, che li rendeva <<fatti ad immagine e somiglianza divina>> ?), la distruzione di tutta l’umanità mediante il Diluvio (tentativo di rimediare alla degenerazione del patrimonio cromosomico, causata da incroci con individui di decrescente purezza genetica?); e il punto interrogativo è d’obbligo, vista la “delicatezza” degli argomenti...

La differenza consiste nel fatto che il testo biblico, compilato successivamente, sembra riportare gli stessi eventi a guisa di “condensato” (alla Reader’s Digest, per intendersi): ad esempio, la Bibbia monoteista ha riunito nel Dio unico le decisioni a carico dell’Uomo optate da più “dèi” (i Nefilim), che non sempre, come abbiamo visto, erano concordi. Un’altra differenza la troviamo per quanto concerne il Diluvio, catastrofe meteorologica scientificamente accertata, che ha interessato tutto il globo e non solo la Mesopotamia (tracce della ciclopica alluvione sono ancor oggi visibili a livello della cordigliera andina) e di cui parlano le tradizioni di tutte le civiltà, persino quella Maya. Mentre per la Genesi tale fenomeno fu voluto da Dio come punizione dell’empietà umana, secondo la trascrizione sumerica fu un evento naturale inevitabile, ma che i Nefilim, grazie alle loro conoscenze avanzate, erano in grado di prevedere. Tutti gli studiosi concordano che il cosiddetto “Diluvio Universale” si verificò all’incica 13.000 anni fa, alla fine dell’ultima era glaciale, quando iniziò il mite clima attuale. Tale riscaldamento atmosferico, agendo sulle spesse coltri di ghiaccio delle calotte polari, provoca uno stato di grande instabilità degli strati superficiali, che spesso si distaccano e precipitano in mare, provocando enormi ondate, del tutto simili ai maremoti. Il Dr. John Hollin, dell’Università del Maine, calcolò che, se anche soltanto la metà dei ghiacci che attualmente coprono l’Antartide (1 km. e mezzo di spessore) dovessero scivolare nell’oceano, il livello di tutti i mari del pianeta si innalzerebbe di una ventina di metri, sommergendo le città costiere e i bassopiani: ed è esattamente ciò che ci prospetta, a lungo andare, l’effetto-serra.

Probabilmente i Nefilim avevano osservato questi mutamenti climatici, si erano accorti dell’instabilità delle calotte polari ed avevano calcolato, nel precedente “passaggio” del loro pianeta nei pressi della Terra, che il successivo sarebbe stato quello critico, vale a dire che l’attrazione gravitazionale del 12° avrebbe scatenato inevitabilmente la catastrofe. Va ricordato che Nibiru, secondo la tradizione sumerica, è più piccolo di Giove e Saturno, ma sempre enormemente più grande della Terra (circa dieci volte); d’altronde anche la Luna, da piccolo satellite qual è, esercita un’attrazione gravitazionale sufficiente per causare le maree, che assumono proporzioni considerevoli sulle coste atlantiche e generano ondate tumultuose alla foce del Rio delle Amazzoni.

Sembra quindi che i Nefilim volessero approfittare di questa catastrofe naturale per “epurare” la Terra dagli Uomini, sfuggiti al loro controllo e geneticamente indeboliti, istruendo solo la famiglia di Noè, l’unica conservatasi “pura nelle sue genealogie”, sul come sopravvivere al diluvio. Ecco quindi che al “castigo” di Yahweh contro l’Uomo divenuto “moralmente impuro” potrebbe corrispondere il tentativo di selezionare una stirpe di intatta “purezza genetica”da parte dei Nefilim: e anche qui è d’obbligo il condizionale...

Quando le acque si ritirarono, i Nefilim, per consentire all’Umanità (che, anche se sfuggita di mano, era pur sempre una loro “creazione”) di riprendere rapidamente il proprio cammino evolutivo dopo la catastrofe che tutto aveva cancellato, le insegnarono le arti dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame. Scienziati, Bibbia e Suméri in questo concordano: la “scoperta” dell’agricoltura fu un fatto “improvviso”, databile circa 13.000 anni fa (periodo neotermico); la semina e la mietitura sono descritte negli antichi testi come “doni divini concessi a Noè per risollevarsi dal Diluvio”. Ciò che gli scienziati però non sanno spiegare è come mai i cereali più antichi (come quelli rinvenuti nella grotta di Shanidar) fossero già altamente selezionati e non se ne sia mai trovato il corrispondente allo stato selvatico.

In natura sono necessarie migliaia di generazioni di selezione genetica per acquisire anche un modesto grado di specializzazione; non esistono spiegazioni di questo “miracolo” di fito-genetica, a meno che il processo non sia stato naturale, bensì frutto di ingegneria genetica... La spelta (un tipo di frumento a grano duro) presenta un enigma ancor maggiore: è il risultato di un insolito miscuglio dei geni di diverse piante; non è l’evoluzione di un precursore, né una mutazione di un ceppo originario. 

I Suméri la risposta la conoscevano: i semi del frumento, dell’orzo e della canapa erano un dono “inviato sulla Terra da parte degli dèi che abitano nelle Dimore Celesti”. I passaggi periodici del Dodicesimo Pianeta nei pressi della Terra sembrano stare alla base delle tre fasi cruciali della civiltà umana dopo il Diluvio: l’inizio dell’agricoltura, intorno all’11.000 a.C.; la fase neolitica, intorno al 7.500 a.C. e l’improvvisa fioritura della civiltà nel 3.800 a.C.; datazioni separate da intervalli di 3.600 anni... I Nefilim quindi, se si accetta questa ipotesi, trasmettevano la conoscenza all’Uomo a “dosi misurate” e lo facevano a intervalli regolari, corrispondenti ai ritorni periodici del loro Pianeta nelle vicinanze del nostro, cioè durante il periodo della “finestra” che permetteva atterraggi e decolli fra i due corpi celesti.

Quello che segue è storia, si fa per dire, recente: l’Umana stirpe si moltiplicò e comincio ad espandersi in altre terre: la valle del Nilo a occidente e quella dell’Indo ad oriente (35). Ovunque si insediasse, anche molto lontano dalla primitiva patria, portava con sé il ricordo indelebile di “un dio grandissimo, che venne sulla Terra nei tempi più antichi dall’alto dei cieli”: per questo istituì molti luoghi di culto, collocando in ognuno di essi i simboli e le immagini che lo identificavano. Così in Egitto sorsero le piramidi, evidenti simulazioni degli ziggurat mesopotamici, in cui la salma del Faraone, rappresentante degli dèi in Terra, era pronta per “ritornare” donde era venuta (“collegamento fra cielo e terra”), mentre nella valle dell’Indo era venerato il simbolo della croce, il segno del Dodicesimo Pianeta (36).

E così l’Uomo tornò ad osservare il Cielo, come Yahweh esortò Abramo, nella segreta speranza di essere richiamato un giorno nella Divina Dimora Celeste, per godere l’eterna beatitudine della “vita superiore”.

A quando dunque il prossimo passaggio? Secondo i calcoli di Sitchin, intorno al 2.800: come dire che il pianeta degli dèi, dopo aver raggiunto nell’anno 1.000 il punto più lontano dal Sole, avrebbe oggi già percorso più della metà del viaggio di ritorno verso la Terra. E forse i messaggeri incaricati di preannunciarci il ritorno dei Nefilim sono già qui, per dirla con Nostradamus, che prevede nel 1998 l’anno del “contatto”.

Fantasie?

Verso la metà di agosto del 1991, ai piedi della Milk Hill, presso Stanton St.Bernhard, nello Wiltshire (Inghilterra) comparve un singolare pittogramma in un campo di grano: si trattava di un’iscrizione composta di strani segni quadrangolari, in una lingua sconosciuta. Michael Green, archeologo britannico sovrintendente alle località preistoriche per la “National English Heritage”, dopo lunghi ed accurati studi giunse alla conclusione che tale iscrizione risultava un misto di caratteri fenici, ebraici ed iberici antichi. Una volta decifrata, così recita: <<il Creatore, saggio e benevolo>>: eccoci tornati per l’ennesima volta ai Suméri ! (37)

E così, dopo tanto peregrinare, ci ritroviamo daccapo con un’altra domanda: se furono i Nefilim a “creare” l’Uomo sulla Terra, << CHI >> creò i Nefilim sul Dodicesimo Pianeta ?



fonte: www.croponline.org
articolo di: Giorgio Pattera
 
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