Dante Alighieri, Poeta, scrittore e politico

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†MurderouS_AngeL†
view post Posted on 26/10/2008, 22:20




« Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. »

(Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante)

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Dante Alighieri (ritratto di Sandro Botticelli).

Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321) è stato un poeta, scrittore e politico italiano. È stato definito "il padre della lingua italiana", poiché nella sua opera principale, la Divina Commedia, il volgare raggiunge un livello di dignità e di complessità fino ad allora riconosciuto solo al latino. La Commedia è l'opera più importante della letteratura italiana ed è considerata uno dei capolavori della letteratura universale.

Il suo nome era, secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, un ipocorismo di "Durante": «Durante, olim vocatus Dante». Nei documenti, al nome di Dante può seguire il patronimico "Alagherii" o il gentilizio "de Alagheriis", mentre la variante "Alighieri" si afferma solo con l'avvento di Boccaccio.

Biografia

La data di nascita di Dante è sconosciuta, anche se viene in genere indicata attorno al 1265, da alcune allusioni autobiografiche fatte nella Vita Nova, nell'Inferno (che comincia Nel mezzo del cammin di nostra vita: poiché in altre sue opere, seguendo una tradizione ben nota, la metà della vita dell'uomo viene considerata di 35 anni, e svolgendosi il viaggio immaginario nel 1300, si risalirebbe al 1265). Alcuni versi del Paradiso ci dicono poi che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno.

« L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve dà colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. »

(Paradiso, Canto XXII, 151-154)



Nacque comunque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in "Guelfi bianchi" e "Guelfi neri".

Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inferno Canto XV, 76), ma il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Paradiso Canto XV, 135), vissuto intorno al 1100.

Suo padre, Aleghiero o Alaghiero di Bellincione, era un Guelfo, ma non patì vendette dopo che i Ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti. Questo perché la sua famiglia non godeva di una particolare popolarità da considerarsi una minaccia.
La madre di Dante era Donna Bella degli Abati; "Bella" corrisponde a Gabriella, ma significa anche "bella d'aspetto" mentre Abati era il nome di un'importante famiglia. Ella morì quando Dante aveva 5 o 6 anni ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. (È incerto se realmente l'abbia sposata, poiché i vedovi avevano limitazioni sociali in materia). La donna mise al mondo due bambini: il fratello di Dante, Francesco e sua sorella Tana (Gaetana).

Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui essa apparteneva (i Donati) era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale, che in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri. Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, che pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati col Papa, erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale; Dante in particolare nel De Monarchia auspicava l'indipendenza del potere imperiale dal Papa, pur riconoscendogli una superiore autorità morale.

Dante da Gemma ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia; ma molti bambini finsero di essere suoi figli naturali. Un quarto figlio, Giovanni, è documentato una volta soltanto. Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna. Si dice fosse figlio suo anche un certo Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia, che compare come testimone in un atto del 21 ottobre del 1308 a Lucca.

A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l'entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica, permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, egli si immatricolò all'Arte dei Medici e Speziali.

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, perché i verbali delle assemblee sono andati perduti, comunque attraverso altre fonti si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei Priori, cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta come ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.

Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico Papa Bonifacio VIII. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal papa per ridimensionare la potenza della parte dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato ed era in carica durante il difficile momento quando il cardinale mosse un esercito da Lucca contro Firenze, venendo però bloccato ai confini dello stato fiorentino.
Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana, i capi e le "teste calde" delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (presto essi tornarono alla spicciolata), ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri che stavano per approfittarsi della situazione quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, compreso Dante, sia l'odio della parte nemica, che la diffidenza degli "amici", e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.

Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come teorico "paciere" (ma conquistatore di fatto), la Repubblica spedì a Roma un'ambasceria con Dante stesso, accompagnato da Maso Minerbetti e il Corazza da Signa.

Dante si trovava quindi a Roma, trattenuto oltre misura proprio da Bonifacio, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301, Cante Gabrielli da Gubbio fu nominato Podestà di Firenze, dando inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli elementi ostili al Papa, che si risolse nell'uccisione o nell'esilio di tutti i guelfi Bianchi. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo ed alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.

Durante l'esilio, Dante fu ospite di varie corti e famiglie dell'Italia centro-settentrionale, fra cui i ghibellini Ordelaffi, signori di Forlì, dove probabilmente si trovava quando Enrico VII entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel da Verona, che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita.

In particolare, falliti i tentati colpi di mano del 1302, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò, insieme a Scarpetta degli Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì, un nuovo tentativo di rientrare in Firenze. L'impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, un altro forlivese (nemico degli Ordelaffi), Fulcieri da Calboli, riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Puliciano.

Dopo ciò, Dante, deluso, anche se tornò a Forlì ancora nel 1310-1311 e nel 1316 (data incerta, quest'ultima), decise di fare "parte per se stesso" e di non contare più sull'appoggio dei ghibellini per rientrare nella sua città.

Morì il 14 settembre del 1321 a Ravenna, quando, passando dalle paludose Valli di Comacchio prese la malaria, di ritorno da un'ambasceria a Venezia, allora in attrito con Ravenna ed in alleanza con Forlì: gli storici pensano che sia stato scelto Dante per quella missione, in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare meglio una via per comporre le divergenze. I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Francesco a Ravenna. Le sue ossa riposano oggi nella cappella fatta appositamente edificare, sotto un piccolo altare che porta l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio nel 1366 :

"IVRA MONARCHIE SVPEROS PHLAEGETONTA LACVSQVE / LUSTRANDO CECINI FATA VOLVERVNT QVOVSQVE SED QVIA PARS CESSIT MELIORIBVS HOSPITA CASTRIS / ACTOREMQVE SVVM PETIIT FELICIOR ASTRIS HIC CLAVDOR DANTES PATRIS EXTORRIS ABORIS / QVIA GENVIT PARVI FLORENTIA MATRIS AMORIS"

(traduzione: "I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli inferi), visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore")

Gli Studi

Poco si sa circa gli studi di Dante. La cultura dantesca, formatasi in un contesto educativo totalmente diverso da quello attuale, è ricostruibile, in assenza di dati documentari affidabili, innanzitutto a partire dalle opere. Si ottiene così l'immagine di un attento studioso di teologia, filosofia, fisica, astronomia, grammatica e retorica: in breve, di tutte le discipline del Trivium e del Quadrivium previste dalle scuole e dalle Universitates medievali. È tuttavia probabile che abbia frequentato gli studia religiosi e laici di cui si ha notizia a Firenze. Alcuni ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove. In un verso della Divina Commedia (Par., X, 133-138) Che, leggendo nel vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri, Dante allude a Rue Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona; questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi. Ovviamente, la cultura ufficiale delle Università era essenzialmente in lingua latina. Di conseguenza, la cultura letteraria di Dante è basata principalmente sugli autori latini; in particolare Virgilio, che ebbe un'influenza determinante sulle opere dantesche. Dante, tuttavia, conobbe certamente un buon numero di poeti volgari, sia italiani che provenzale. Nelle sue opere è evidente il legame con la poesia toscana di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta Orbicciani (cfr. Purgatorio, Canto XXIV, 52-62)di Guido Guinizelli e della Scuola poetica siciliana, una corrente letteraria attiva alla corte di Federico II che si esprimeva in volgare, la quale proprio allora stava cominciando ad essere conosciuta in Toscana e che aveva in Giacomo da Lentini (il famoso "Notaro" di cui alla citazione precedente) il suo maggior esponente. La conoscenza del provenzale da parte di Dante è ricostruibile sia dalle citazioni contenute nel De vulgari eloquentia, sia dai versi provenzali inserti nel Purgatorio (XXVI, 140-147).

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune sue opere, possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di Albertano da Brescia.

Grazie ai suoi interessi, Dante scoprì i menestrelli ed i poeti provenzali e la cultura latina, professando una devozione particolare per Virgilio:

« Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore »

(Inferno I, 85-87)



Dovrebbe essere sottolineato che durante il Medioevo le rovine dell'Impero romano decaddero definitivamente, lasciando dozzine di piccoli stati, così la Sicilia era tanto lontana (culturalmente e politicamente) dalla Toscana quanto lo era la Provenza: le regioni non condividevano una lingua, una cultura, o collegamenti facili. È possibile supporre che Dante fosse per il suo periodo un intellettuale aggiornato, acuto e con interessi, come si direbbe oggi, internazionali.

Lo "Stilnovo" e Beatrice


A 18 anni egli incontrò Lapo Gianni, Cino da Pistoia e subito dopo Brunetto Latini; insieme essi divennero i capiscuola del Dolce Stil Novo. Brunetto Latini successivamente fu ricordato nella Divina Commedia (Inferno, XV, 82), per quello che aveva insegnato a Dante: non come un semplice maestro, ma uno dei più grandi luminari che segnò profondamente la sua carriera letteraria e filosofica: maestro di retorica, abile compilatore di trattati enciclopedici, dovette iniziarlo alla letteratura cortese provenzale e francese, scrivendo il Tresor proprio in Francia. Brunetto mette in evidenza il rapporto tra gli studi di grammatica (latino) e di retorica e la filosofia amorosa cortese, gettando le basi degli interessi speculativi del futuro Dante.

Altri studi sono segnalati, o sono dedotti dalla Vita Nuova o dalla Divina Commedia, per ciò che riguarda la pittura e la musica. Quando aveva 9 anni incontrò Beatrice Portinari, la figlia di Folco Portinari. Si è detto che Dante la vide soltanto una volta e mai le parlò (ma altre versioni sono da ritenersi ugualmente valide). Più interessante è però, al di là degli scarni dati biografici che ci sono rimasti, è la Beatrice divinizzata, e dunque sublimata della Vita Nuova: l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla terra, lo studio psicologico che compie il poeta sul proprio innamoramento. L'introspezione psicologica, l'autobiografismo, ignoto al Medioevo, guardano già al Petrarca e più lontano ancora, al Rinascimento. Il nome Beatrice, assumerà soprattutto nella Divina Commedia la sua reale importanza, in quanto, etimologicamente parlando significa "Portatrice di Beatitudine", tanto che solo questa figura potrà condurre Dante lungo il percorso del Paradiso.

È difficile riuscire a capire in cosa sia consistito questo amore, ma qualcosa di estremamente importante stava accadendo per la cultura italiana: è nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo e condurrà i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore, in un modo mai così enfatizzato prima.

L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione della sua concezione del dolce stil novo, nuova concezione dell'amor cortese sublimata dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi), per poi approdare alla filosofia dopo la morte dell'amata, che segna simbolicamente il distacco dalla tematica amorosa e l'ascesa del Sommo Poeta verso la sapienza, luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso della Divina Commedia.

Filosofia e politica


Quando Beatrice morì nel 1290, Dante cercò di trovare un rifugio nella letteratura latina. Dal Convivio sappiamo che aveva letto il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone. Egli allora si dedicò agli studi filosofici presso le scuole religiose come quella Domenicana in Santa Maria Novella. Prese parte alle dispute che i due principali ordini religiosi (Francescani e Domenicani) pubblicamente o indirettamente tennero in Firenze, gli uni spiegando la dottrina dei mistici e di San Bonvenutura, gli altri presentando le teorie di San Tommaso d'Aquino. La sua "eccessiva" passione per la filosofia gli sarebbe stata successivamente rimproverata da Beatrice nel Purgatorio.

Dante fu anche soldato, e l'11 giugno 1289 combatté nella battaglia di Campaldino che vide contrapposti i cavalieri fiorentini ad Arezzo; successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) quando questi si trovava a Firenze. Dante stesso cita Carlo Martello d'Angiò nella Divina Commedia (Paradiso, Ct. VIII, 31 e Ct. IX, 1 - vedi)

Opere


La Vita Nova
La Vita nuova, che può essere considerata il racconto di una vicenda autobiografica resa come exemplum, narra la vita spirituale di Dante ed è strutturata in quarantadue capitoli in prosa collegati in una storia omogenea che spiega una serie di poesie composte in tempi differenti.

L'opera è consacrata all'amore per Beatrice e fu composta probabilmente tra il 1293 e il 1295. La composizione delle rime si può far risalire, secondo la cronologia che Dante fornisce, tra il 1283 come risulta dal sonetto A ciascun alma presa e dopo il giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Per stabilire con una certa sicurezza la data della composizione del libro nel suo insieme organico, ultimamente la critica è propensa ad avvalersi del 1300, data non superabile, che corrisponde alla morte del destinatario Guido Cavalcanti: "Questo mio primo amico a cui io ciò scrivo" (Vita Nuova, XXX).

Quest'opera ha avuto una particolare fortuna negli Stati Uniti, dove fu tradotta dal grande filosofo e letterato Ralph Waldo Emerson.

Le rime
La prima esperienza di Dante si deve far risalire alle Rime, una cinquantina di componimenti di attribuzione certa, oltre a quelli contenuti nella "Vita Nuova" e nel "Convivio", che non possiedono una struttura organica e che pertanto non possono essere accolte sotto il nome di Canzoniere. Le rime, che accompagnano la maturazione e la produzione del poeta fino a quando egli si dedicò completamente alla Commedia, furono ordinate a posteriori dagli studiosi secondo un criterio cronologico che si rifà a diversi nuclei tematici.

La Divina Commedia
La Comedìa — titolo originale dell'opera — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale. Viene definita "comedia" in quanto scritto in stile "comico" ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 (anno giubilare, tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta.

Il poema è diviso in tre libri o cantiche, ciascuno formato da 33 canti (tranne l'Inferno che ne presenta 34, poiché il primo funge da proemio all'intero poema); ogni canto si compone di terzine di endecasillabi. La Commedia tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla pedante poesia didattica medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, nei quali si proiettano il bene e il male del mondo terreno, compiuto dal poeta stesso, quale "simbolo" dell'umanità, sotto la guida della ragione e della fede. Il percorso tortuoso e arduo di Dante, il cui linguaggio diventa sempre più complesso quanto più egli sale verso il Paradiso, rappresenta, sotto metafora, anche il difficile processo di maturazione linguistica del volgare illustre, che si emancipa dai confini angusti entro i quali lo aveva rinchiuso il pregiudizio scolastico medievale. Dante è accompagnato sia nell'inferno che nel purgatorio dal suo maestro Virgilio; in paradiso da Beatrice e da San Bernardo.

Il Convivio

Convivio (1304-1307), dal latino Convivium, ovvero banchetto di sapienza. È la prima delle opere di Dante scritta subito dopo il forzato allontanamento di Firenze. È un prosimetro che si presenta come un'enciclopedia dei saperi più importanti per coloro che vogliano dedicarsi all'attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi superiori. È scritta in volgare per essere appunto capita da chi non ha avuto la possibilità in precedenza di conoscere la scienza. L'incipit del Convivio fa capire chiaramente che l'autore è un grande conoscitore e seguace di Aristotele; questi, infatti, viene citato con il termine "Lo Filosofo". L'incipit in questo caso spiega a chi è rivolta quest'opera e a chi non è rivolta. Coloro che non hanno potuto conoscere la scienza sono stati impediti da due tipi di ragioni:

* Interne: Malformazioni fisiche, vizi e malizia
* Esterne: Cura familiare, civile e difetto di luogo di nascita

Dante ritiene beati i pochi che possono partecipare alla mensa della scienza, dove si mangia il "pane degli angeli", e miseri coloro che si accontentano di mangiare il cibo delle pecore. Dante non siede alla mensa, ma è fuggito da coloro che mangiano il pastume e ha raccolto quello che cade dalla mensa degli eletti per crearne un altro banchetto. A questo convivio saranno invitati solo coloro che sono stati impediti da ragioni esterne, perché gli altri non avrebbero la capacità di capire. L'autore allestirà un banchetto e servirà una vivanda (i componimenti in versi) accompagnata dal pane (la prosa) necessario per assimilarne l'essenza. Saranno invitati a sedersi solo coloro che erano stati impediti da cura familiare e civile, mentre i pigri sarebbero stati ai loro piedi per raccogliere le briciole.

Lo stile del Convivio

Dante nel Convivio pronuncia la prima difesa del volgare, ritenuto superiore al latino quanto a bellezza e nobiltà. La prosa del Convivio raggiunge una solidità sintattica, un equilibrio compositivo ed una chiarezza espositiva non inferiori a quelle tramandate dal latino. Dunque Dante fonda la prosa filosofica in volgare in cui frequenti sono gli usi di metafore e similitudini, attraverso cui l'autore conferisce concretezza ed evidenza alle proprie rappresentazioni, anche a quelle più squisitamente teoriche. I tre temi fondamentali del Convivio dunque sono la difesa del volgare, l'esaltazione della filosofia, la discussione intorno all'essenza della nobiltà, cui si riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall'impero e dalla tradizione romana.

De vulgari eloquentia
Contemporaneo al Convivio il De vulgari eloquentia è un trattato di linguistica in lingua latina scritto da Dante Alighieri tra il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri.

Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in una appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere:

* illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto),
* cardinale (tale che intorno ad esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali),
* aulico (reso nobile dal suo uso dotto),
* curiale (come linguaggio delle corti italiane).

Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune, nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione italiana. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei migliori scrittori italiani, ma molti di quei libri attendevano ancora di essere scritti, e in questo senso il trattato di Dante è un appello ai dotti lettori alla cui penna chiedeva disperatamente aiuto.

De Monarchia
L'opera è divisa in tre libri. Nel primo Dante afferma la necessità di un Impero universale e autonomo, e riconosce questo impero come unica forma di governo capace di garantire unità e pace. Nel secondo riconosce la legittimità del diritto dall'impero da parte dei Romani. Nel terzo libro Dante dimostra che l'autorità del monarca è una volontà divina, e quindi dipende da Dio. Non è soggetta all'autorità del pontefice.
La posizione dantesca è per più aspetti originale. Essa è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione teocratica,quanto con i sostenitori dell'autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all'imperatore e al papa.

L’epistola a Cangrande


Strettamente collegata al Convivio è anche l’epistola a Cangrande della Scala, che dovrebbe risalire agli anni tra il 1315 e 1317. L’epistola contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, che era stato molto generoso col poeta. Quest'opera è ancora più importante poiché contiene le indicazioni per leggere il poema: il soggetto (la condizione delle anime dopo la morte), la pluralità dei sensi, il titolo (che deriva dal fatto che inizia in modo aspro e triste e si conclude con il lieto fine), la finalità dell’opera che non è solo speculativa, ma pratica poiché mira a rimuovere i viventi dallo stato di miseria per portarli alla felicità.

Bibliografia

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