Gelo dopo l'addio di VeltroniL'accusa a Bersani: è anche colpa tuaLa mossa del leader del Pd spiazza i rivali. D'Alema:
«Ci vuole senso di responsabilità da parte di tutti»Quel che accadrà lo dice la rutelliana Linda Lanzillotta, mentre sorseggia un caffè alla buvette della Camera: «Walter è il Pd e se lui se ne va che resterà di questo partito? Probabilmente niente». Le dimissioni rimuginate durante la notte e poi di nuovo la mattina dopo sono arrivate. E ora c'è Massimo D'Alema che dice: «Ci vuole senso di responsabilità da parte di tutti: bisognerà decidere nelle sedi opportune». C'è Dario Franceschini che è pronto per reggere il partito fino al congresso di ottobre. C'è Pierluigi Bersani, sfidante ormai senza sfidato, che non vuole assolutamente prendere la guida della baracca adesso, «sennò la sconfitta delle Europee ricadrà su di me». E ancora, ci sono i buoni amici «esterni» del Pd, che consigliano di eleggere subito un leader forte, ma sono gli stessi che avevano fatto un pensierino su Soru, e poi è successo quel che è successo.
Ci si scervella nella ricerca del percorso migliore per il dopo-Veltroni, ma l'obiezione della Lanzillotta è chiara a tutti e rischia di rendere vano ogni sforzo. I rutelliani si sentivano garantiti dall'attuale leader. E non solo loro. Se quel che deve rimanere è il vice di Veltroni, in accordo con Bersani, il tutto sotto l'egida di Franco Marini, allora tanto vale andarsene e rompere quel giocattolo complicato che si chiama Pd. Per questo a tarda sera rispunta un'ipotesi che sembrava essersi eclissata: quella del congresso anticipato. Dunque, il Veltroni che si dimette spiazza tutti. Anche D'Alema. I sostenitori dell'ex ministro degli Esteri ieri volevano partire lancia in resta per chiedere le dimissioni del segretario. Peccato che lui li abbia anticipati, arrivando in mattinata a largo del Nazareno e avvisando Franceschini, Fassino, Gentiloni, Tonini e Bettini della sua decisione. Irrevocabile, nonostante quel che pensasse ancora in mattinata D'Alema. Ma Veltroni è fatto così. Riconsegna subito perfino l'auto del partito. E ai fedelissimi che lo vorrebbero più pugnace dice: «Basta, ho deciso e non torno indietro. Né farò altro. Non sono tipo da organizzare correnti, farò il deputato semplice».
La decisione è presa e non c'è politica che tenga. Veltroni la comunica a tutti: al capo dello Stato e a Gianni Letta, a Casini e a Fini. Solo con D'Alema non parla. Ma la distanza tra i due, ormai, è enorme, e non è più il tempo delle astuzie diplomatiche. Al Pd non si fa più finta di volersi bene quando in realtà non è così. Tant'è vero che mentre il leader si dà più di un'ora di tempo per decidere, tra una riunione del coordinamento e l'altra, chi non ama Veltroni non partecipa alla lunga processione dei dirigenti di partito che gli chiedono di ripensarci. Nella fila davanti alla porta del suo ufficio non si scorgono né Bersani, né Enrico Letta, né Rosy Bindi. E quanto a Bersani, lui certo non si straccia le vesti per le dimissioni del segretario: potrebbe respingerle a patto, però, che Veltroni «recepisca» le «istanze che io rappresento», o che, comunque, lasci «campo libero» alle sue iniziative. Finita la riunione Veltroni gli passa davanti e, riferendosi alla sua candidatura anzi tempo, gli sibila: «E' stata tutta colpa tua». Bersani si adira e al piano nobile di largo del Nazareno si sfiora la rissa. No, non è più il tempo del «volemose bene», delle dimissioni false, dell'analisi del voto cauta e pudìca. Veltroni non indora la pillola: «Il risultato della Sardegna è drammatico. C'è una situazione scollata. Il Pd è andato male e non si può fare finta di niente, ci vuole un forte gesto di discontinuità, di rottura».
Tutti lo ascoltano senza capire quel che il segretario sta per annunciare: le sue dimissioni. «Il mio logoramento sta diventando il logoramento del partito e allora è meglio che io mi faccia da parte». E anche dopo, quando qualche amico gli chiede se ha una qualche intenzione di fare marcia indietro, il leader appare irremovibile e ripete suppergiù le stesse parole che pronuncia nella riunione del coordinamento: «La gente non capirebbe le sceneggiate. Io sto facendo sul serio e andrò fino in fondo. Meglio le dimissioni, così forse si salva il progetto del Pd e si salva anche la compattezza del partito, se sono io l'ostacolo, meglio che lasci perdere, sono sicuro che in questo modo tutti avranno modo di riallinearsi». Conclusione provocatoria, ma anche amara. D'altra parte Veltroni non nasconde di sentirsi «spezzato dentro». Eppure, anche dopo le parole nette pronunciate dal segretario, nella riunione c'è chi spera ancora di fermarlo, di fare in modo che non si dimetta. Solo quando Veltroni, con aria questa volta pacata e riappacificata, riprende il suo discorso, scatta un campanello d'allarme tra i dirigenti del Pd. Quello del segretario è inevitabilmente un commiato: «Ho lavorato bene con voi...». Niente più frasi pungenti, sfoghi e amarezze, ma soltanto un addio. E una promessa: «Non farò battaglie tutte interne al partito, non sarebbe da me». Insomma, chiunque sia il suo successore - Franceschini pro tempore, Bersani, un outsider o un giovane come vorrebbero alcuni veltroniani - il segretario non andrà alla guerra. Anche perché il rischio vero è che venga a mancare il campo di battaglia, ovvero sia il Partito democratico, che rischia ormai di eclissarsi insieme a Veltroni.
Maria Teresa Meli
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estratto da qui