Madam Frambois, a puntate

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Altherea
view post Posted on 28/11/2006, 17:20




I





Boston, 1901

La casa era silenziosa, se non per i passi concitati di mio padre che, nervoso, fumava incessantemente il suo sigaro per il corridoio, lanciando grugniti e sguardi preoccupati verso la porta chiusa, mentre il silenzio imperterrito continuava a invadere ogni angolo di casa e poi…
Urlai con quanto fiato avevo in corpo, rossa in volto, mentre mi avvolgevano in calde coperte depositandomi sul grembo di mia madre, che sudata ma sorridente mi guardava con amore.
Nacqui il 1 gennaio 1901 all’una del mattino, mia madre decise di chiamarmi Loren Frambois

Boston, 1914

Per la strada alcuni ragazzetti si divertivano schiamazzando, li guardai sorridendo dalla finestra della mia camera, il naso quasi premuto sul vetro freddo, mentre osservavo le nuvole bianche gonfie di neve ricoprire la città, finalmente domani avrei compiuto 14 anni! Gongolavo all’idea della festa che mamma e papà mi stavano preparando, all’abito di crinolina che mi era stato regalato da nonna proprio per quell’occasione e alla promessa di potermi agghindare i lunghi capelli rossi coi boccoli, come alcune delle attrici che avevo visto a teatro con papà. Tutto era perfetto. O almeno così credevo.

Boston, 01 gennaio 1915

Mi alzai insonnolita, stropicciandomi gli occhi, mettendomi seduta, ancora avvolta dalle coperte, lo sguardo si soffermò alla finestra, sorrisi notando i candidi fiocchi ricoprire tutta Boston, adoravo la neve. Il mio compleanno non poteva iniziare meglio.
abbrividii, come se un soffio leggero mi avesse avvolto per poi lasciarmi tremante, resistetti alla tentazione di guardarmi attorno, risoluta, scostai le coltri e posai i piedi nudi sul pavimento. La camicia da notte bianca di lino, mi avvolgeva dal collo ai piedi, quante volte da bambina avevo rischiato d’inciamparvi, mentre correvo ridendo, sfuggendo alle cure della tata Molly, ma ora avevo 14 anni, ero una donna e tutto mi sembrava così lontano….
Mi avviai verso il lavabo, vicino la finestra, con fatica sollevai la brocca d’acqua calda (ringraziando Molly che poco prima del mio risveglio era sgusciata in camera) riempiendo quasi all’orlo il piatto sottostante. Sebbene avessimo un lussuosissimo bagno, mi piaceva utilizzare quel vecchio cimelio di ferro e porcellana, ornato da un piccolo specchio orientabile appena sopra la ciotola, ora appannato dal calore umido dell’acqua.
Osservai la mia figura sfocata, mentre mi asciugavo il viso e fu così che rimasi, immobile e paralizzata mentre accadde ciò che finì col diventare la mia fortuna e il mio incubo..
Sul vetro appannato cominciarono a delinearsi alcune lettere, come quando da bambini si disegnano le facce sul vetro di casa, e potei leggere chiaramente: AIUTAMI.
Tremavo, ancora stringendo l’asciugamano, che gettai a terra urlando quando i miei occhi incontrarono quelli di un uomo che mi guardavano fissi attraverso lo specchio.

Mio padre accorse trafelato, trovandomi atterrita davanti il lavabo, mi voltai verso di lui, ancora urlando, additando frenetica lo specchio per poi accasciarmi svenuta ai suoi piedi, non prima di aver visto la sua espressione confusa vagare da me al lavabo.

Il medico stabilì che si trattava di un incubo e di un isolato caso di sonnambulismo, ma vi furono altri episodi che mi portarono spesso a pensare di essere pazza mentre i miei genitori mi guardavano sempre più con paura e imbarazzo, sino alla decisione di “rinchiudermi” in collegio.



Boston, settembre 1915

La macchina procedeva sobbalzando, i miei genitori discutevano animatamente di questa decisione, mentre mia madre ancora versava qualche lacrima, il fazzoletto bianco stretto in mano, attenta a non rovinarsi il trucco, mentre io guardavo angosciata l’imponente e massiccia costruzione farsi sempre più vicina. Il College era situato lontano dalla periferia di Boston, un vero e proprio rifugio (o prigione) dall’ambiente familiare, si ergeva in una placida e imponente costruzione in stile vittoriano, i mattoni scuri rallegrati qua e la da un’edera rossiccia che si avviluppava ad alcune delle più vecchie costruzioni.
Il mio cuore piangeva, sarei stata costretta a vivere in quel luogo per 4 anni, poche le occasioni di vedere i miei genitori (sempre che loro volessero) se non nelle festività comandate, duro il programma scolastico e i professori erano ben conosciuti per la loro rigidità e severità.
L’auto percorreva il viale alberato da una decina di minuti e quasi non mi accorsi ch’eravamo arrivati finché non la sentii fermarsi d’innanzi la facciata principale, scesi, lasciandomi scivolare sul sedile, i sassi del selciato scricchiolarono sotto i miei stivaletti, mente mio padre mi posò una mano sulla spalla, sembrava esitare anche lui di fronte l’austerità del luogo, ma poi mi sospinse avanti.
Il portale si aprì senza il minimo cigolio e un maggiordomo silenzioso c'introdusse nell’androne, alzai il capo guardandomi attorno, era immenso, larghe colonne lo dividevano in tre parti, ai lati si dipartivano silenziosi corridoio su cui si affacciavano robuste porte di quercia scura, mentre d’innanzi a noi si apriva una splendida scalinata in marmo bianco.
Da qui stava scendendo il Rettore (un uomo che purtroppo imparai a conoscere molto bene), un uomo basso e tarchiato, i capelli corvini impomatati sulla testa, piccoli occhiali tondi che gli ricadevano spesso sulla punta del naso e l’odioso vizio di sfregarsi continuamente le mani, piccole e quasi femminee.
Fui ignorata completamente, anche se si stava discutendo del mio futuro, ma non me ne preoccupai, intenta com’ero ad osservarmi attorno e in quell’attimo vidi una figura muoversi sulla scalinata, una giovane ragazza, i capelli neri raccolti dietro le orecchie, la piccola figura costretta in un’antiquata divisa, i miei occhi non la lasciarono un secondo mentre scendeva le scale, guardandomi seria.
Probabile che fosse un’altra studente, mi dissi ma quando la vidi passare attraverso il rettore non ebbi dubbi e quasi urlai, trattenendomi a stento, producendo solo un sibilo, mia madre volse rapida il viso, mordendosi un labbro preoccupato, anche mio padre mi guardò e fu il suo sguardo di sgomento, rabbia e rimprovero che mi trattenne ancor di più, sino ad abbassare il capo, decisa ad ignorare quella figura avvicinarsi a me.
Non potei impedirmi di sentire quel sospiro freddo che mi fece rabbrividire, quella risata rimbombare nelle orecchie, mentre stringevo i pugni per non piombare nel panico, pregando Dio di far finire quel tormento, di aiutarmi e finalmente respirai quando ebbi la certezza che si fosse allontanata.
Proprio in quel momento fui presentata al Rettore e dopo un breve sguardo i miei si allontanarono, lasciandomi al fiume di regole che l’uomo mi stava sciorinando, regole che molto più avanti dovetti imparare a memoria e pagare le conseguenze della loro infrazione..
 
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Tulipano Nero
view post Posted on 28/11/2006, 20:46




Ohhh...Altherea, ti ho mai detto che scrivi da paura? :)

In tutti i sensi...;) ^_^

complimenti, hai un ritmo in come scrivi perfettamente adeguato al contesto, e comunque sufficientemente approfondito da creare una atmosfera da vero e proprio libro del mistero ;)

Questa serie la seguirò con molto piacere. :) (Mi hai fatto quasi venire voglia di riprendere in mano il precettore....;))
 
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Altherea
view post Posted on 29/11/2006, 18:53




CITAZIONE (Tulipano Nero @ 28/11/2006, 20:46)
Ohhh...Altherea, ti ho mai detto che scrivi da paura? :)

In tutti i sensi...;) ^_^

complimenti, hai un ritmo in come scrivi perfettamente adeguato al contesto, e comunque sufficientemente approfondito da creare una atmosfera da vero e proprio libro del mistero ;)

Questa serie la seguirò con molto piacere. :) (Mi hai fatto quasi venire voglia di riprendere in mano il precettore....;))

Smack, non sai che piacere leggere il tuo commento, sto scrivendo di getto, dopo aver "giocato" un'intera serata con questo personaggio, mi è entrato dentro e ho deciso di "narrare" la sua storia...spero di non combinare pasticci.... ed ora.... un'altra piccola parte....





DIARIO



Boston, 20 ottobre 1915


Ho deciso di tenere un diario, non posso parlare con nessuno, non capirebbero, ma non sono pazza, no, non sono pazza, tutto questo è reale, mio Dio aiutami, tutto questo è reale.



Boston, 27 ottobre 1915


Oggi è domenica, è l’unico momento, dopo la messa, in cui ho un poco di tempo per annotare tutto, abbiamo circa due ore a disposizione per scrivere lettere ai parenti e io ne approfitterò per scrivere su questo diario. Ho la fortuna di poter contare su una camera singola, ma non posso arrischiarmi a trasgredire altre regole, ormai sono sicura, qualcuno mi controlla, sento spesso dei rumori dietro la parete e non sono loro. Devo stare attenta e dovrò nascondere questo diario, non posso permettere che nessuno lo legga, sarebbe la mia condanna.
Sono arrivata a settembre e da subito il Rettore mi ha spiegato qual'è il fondamento del college: lo studio e soprattutto, piegare i giovani ribelli come me, proprio queste parole ha usato.. io, io che da sempre ho seguito le regole, i canoni convenzionali… ora sono una ribelle.
La giornata inizia alle 7 con colazione nella sala comune, è proibito parlarci, mentre stiamo sedute in questi lunghi e anonimi tavoli, ma ciò non preclude che si riesca comunque a scambiare qualche convenevole. Alcune sono ragazze che ho conosciuto a diversi balli di gala, altre vengono da altre città addirittura altri stati, chi più chi meno costrette sempre dalla famiglia a soggiornare nell’angusto College.
Alle 8 comincia la prima lezione in un susseguirsi continuo sino al pranzo, anch’esso caratterizzato rigorosamente dal silenzio, sotto gli occhi di freddi maggiordomi, se non dal rumore delle nostre posate.
Altre ore di lezione ci portano sino al pomeriggio, interrotto da un ora di equitazione e poi sino alla cena, servita alle 18, dobbiamo recarci alle aule di studio a svolgere i numerosi compiti assegnatici al mattino, mentre la signora Bridge passeggia tra i tavoli attenta alla nostra concentrazione e impedendo qualsiasi tipo di comunicazione non legato allo studio.
Ma tutto questo non mi pesa, è la notte il mio incubo, la notte….

La prima settimana i miei sogni erano popolati da voci, sussurri continui, spesso non afferravo cosa mi dicessero (o non lo ricordavo) ma più spesso erano storie, strazianti, ridicole, malinconiche, ma al mio risveglio mi ripetevo sicura, che erano solo sogni.. Non era così.
Lunedì notte, nel sonno, vidi distintamente la ragazzina che mi terrorizzò il primo giorno che arrivai, china su di me, i capelli neri quasi a sfiorarmi il viso, ma a spaventarmi furono gli occhi, verdi ma spenti, annebbiati e la sua voce che mi chiamava. Mi drizzai sul letto, il cuore mi batteva all’impazzata, mentre i miei occhi scrutavano il buio e la vidi, immobile accanto alla finestra, che mi fissava. Non so come riuscii a non urlare, mentre recitavo, sussurrando, una preghiera a Dio, affinché mi aiutasse.
- Non temerò alcun male… - ripetevo incessante, chiudendo a tratti gli occhi con la speranza, riaprendoli, che quella figura immobile fosse svanita, ma ogni volta era più vicina, sempre di più, finché il suo viso fu vicino al mio.
- Loren – mi chiamò, la voce ora chiara, quasi carezzevole, il sorriso calmo, su quei tratti ora chiari ora nebulosi, come sfocati. Non vi lessi cattiveria, solo una sorta di malinconia, smisi di tremare, mentre percorrevo quella figura, minuta, quasi sgraziata in una divisa grigia e malconcia, i capelli, lucidi, le ricadevano lisci sulle spalle, le mani erano piccole, dalle unghie rosicchiate, notavo i dettagli eppure non ero sicura di quello che stavo vedendo.
- Chi sei? – sussurrai, le mani ancora strette nelle coperte, le ginocchia ora ripiegate verso il corpo, quasi a farmi scudo dietro di esse – Che cosa vuoi? – domandai ancora.
Piegò il viso dal lato destro – Non sai chi sono Loren? – ripeté ancora il mio nome e solo in quel momento mi accorsi che la sua bocca non s’era mossa, che tutto in lei sembrava immobile, statico, eppure percepivo stupore, quasi ironia e una sensazione di movimento, mentre la vedevo muoversi ora per la mia camera, voltandosi ancora a guardarmi – Non sai chi sono? – domandò ancora.
Un’immagine, fulminea mi attraversò la mente, lei, diversa eppure sicuramente la stessa persona, sorridente, i capelli fluttuanti, accarezzati dal vento e ancora lei, gli occhi, gli stessi che ora mi fissavano, malinconici e attraversati da un dolore che non capivo, infine il suo corpo, legato ad una corda, mentre dondolava appeso al soffitto.
Sussultai, riuscii a coprire il grido che mi salì alla gola, contro le coperte, mentre scoppiai in un pianto a dirotto, sommersa in quella tristezza, in quel dolore, in quelle immagini. Quando ritornai a guardare la mia stanza, Lei era sparita.


Boston, 4 novembre 1915


Dio aiutami a non impazzire. Questo posto è un inferno, ora lo so, i sussurri che sentivo nel mio sonno, non sono sogni, sono reali! E’ come se si fosse aperta una porta, tra me e queste, queste cose.. Sono fantasmi? Sono anime? La situazione è peggiorata, non passa giorno in cui non percepisca una di queste presenze in una stanza, accanto a una persona, spesso mi guardano, mi parlano, ma io non voglio sentire, non voglio vedere!
Ieri ero ad equitazione, durante la lezione una delle altre studentesse, Anastasia, saltando un trampolino è caduta, il cavallo stava quasi per piombarle addosso, atterrito, ma poi ha scartato di lato. No, non è stato un caso, ho visto proprio in quel momento un uomo, ergersi davanti a lei, quasi a proteggerla, gridando all’animale, che spaventato ha scartato di lato dandosi poi al galoppo. Ho incrociato gli occhi di quell’uomo e.. ho percepito della bontà, amore direi, mentre si chinava a guardare la ragazza.
Solo ieri sera, in un angolo dello studio, ho potuto parlare con lei, non ho fatto domande, non posso permettermi che altri sappiano, mi prenderebbero per pazza (e forse lo sono) ma lei stessa mi ha confidato una cosa: mentre il cavallo stava per piombarle addosso le è quasi sembrato di sentire la voce del padre, eppure era impossibile, in quanto era morto molto tempo addietro di una brutta malattia.
Ma dunque questi “esseri” sono fantasmi? Sono le anime dei nostri cari? Sono forse angeli custodi destinati a proteggerci? Non riesco a trovare risposta a queste mie domande.
 
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Altherea
view post Posted on 30/11/2006, 18:36




Boston, 11 novembre 1915

Questa notte Lei è tornata, si è incuneata nei miei sogni, fino a strapparmi dall’oblio, ancora una volta era alla finestra, immobile, mentre mi fissava, le braccia lasciate ai lati del corpo e ancora ho udito la sua voce, checché la bocca non le si muovesse.
- Loren -
Mi alzai, sistemandomi di fronte, sentivo il freddo legno del pavimento contro le piante dei piedi, un brivido mi percorse, mentre un refolo gelido s’insinuava sotto la camicia da notte di lino, non avevo paura, o almeno tentavo di non averne, mentre alzavo la mano, decisa a toccarla…
La mia mano la attraversò! Sentii una morsa glaciale perdersi sulla mia pelle, mentre altre immagini si sovrapponevano nella mia mente, brevi flash di una vita che non era la mia, altrettanto velocemente ritrassi la mano e tutto finì.
- Chi sei? -
- Non lo sai? – non c’era scherno, se non forse un misto di curiosità, come se fossi io l’oggetto estraneo nell’insieme e quando i suoi occhi trovarono i miei, un nome mi uscì dalle labbra – Eloise – sussurrai, osservandola assentire, mi lasciai cadere a terra, come esausta.
- Sei tu.. – la mano ora stretta al petto – quel dolore – alzai gli occhi guardandola – La fune… Dio, sei tu…sei morta! – singhiozzai quasi, mentre la realtà s’insinuava dentro di me – Tu sei morta – mormorai ancora.
- Sì – un sussurro lieve, vicino, alzai il capo e lei era lì, seduta accanto a me, i capelli scomposti le ricoprivano quasi il viso, ma sapevo che mi stava guardando – Sono io, tanto tempo fa.. – la voce malinconica, carica di quel dolore che mi attanagliava ora, lasciandomi senza respiro, mentre la vidi salire le scale, lenta, la fune tra le braccia, il volto vacuo, la divisa sgualcita, silenziosa ma decisa, diretta alle soffitte. La osservai con freddo distacco, lanciare la fune oltre la trave, le mani bianche e tremanti preparare il cappio e mentre gli occhi verdi, piangevano urlando il suo dolore, la vidi salire sulla sedia e impiccarsi.

Il mattino è arrivato, trovandomi ancora rannicchiata a terra, il volto rigato da lacrime ormai asciutte, ma ora so chi è Eloise.



Boston, 18 novembre 1915

Eloise è tornata, ancora una volta si è insinuata nel mio sonno ma questa volta ho percorso con lei la scala, sino alla soffitta, ho preparato con lei la corda, ho sofferto con lei mentre il dolore la attanagliava e infine l’ho osservata morire nel silenzio di questo luogo.
E’ stato atroce, mi sono svegliata piangendo e lei era lì ad osservarmi, immobile come sempre ma poi mi ha indicato qualcosa, i miei occhi hanno percorso il suo braccio teso, sino a trovare il punto che mi indicava, un punto del pavimento.
Mi sono inginocchiata, non v’era nulla se non una piccola fessura, sono riuscita con il mio tagliacarte ad insinuarmi ed infine a sollevare una lista del legno, sotto, in un’intercapedine ho trovato alcune lettere, vecchie e ammuffite, qualche soldo annerito ed un piccolo crocefisso d’oro, su cui in bella grafia era stato inciso: Eloise McPeon.
Avrei voluto consegnarlo a quelle piccole mani tese, ma entrambe sapevamo che sarebbe caduto attraversando l’aria, fino a rimbalzare sul legno. L’ho indossato ed è stato come abbracciare quel sospiro freddo, che ora sapevo essere lei.



Boston, 19 novembre 1915

Oggi è avvenuto un fatto inspiegabile il Rettore e i professori, nell’ora di equitazione ci hanno spinte verso le nostre camere, qualcosa di orrendo era successo alle stalle. Da una delle cameriere abbiamo saputo che uno degli stallieri è morto, calpestato da uno dei cavalli, ma arrivata in camera… vi ho trovato quell’uomo, orrendamente sfigurato dagli zoccoli dell’animale, si aggirava irrequieto nella mia stanza, mentre Eloise, immobile lo fissava, ferma accanto alla finestra.
Chiudendo la porta, mi ci sono appoggiata, terrorizzata che qualcuno potesse entrare e vedere un uomo nella mia stanza, terrorizzata perché sapevo quanto fosse impossibile, perché quello era uno degli spiriti, ora lo sapevo.
Continuava a mormorare frasi senza senso, mentre nervoso batteva il palmo contro la coscia, poi mi vide…
Vidi le stalle e lui intento a spostare la paglia, il cavallo calmo e placido in un angolo e poi improvvisamente un ombra alle sue spalle, un colpo alla nuca e poi più nulla. Lo stalliere annuiva, fissandomi, la mano ora posata al collo, ritraendola rossa di sangue.
Rabbrividii ma trovai comunque il coraggio di parlare: - Che cosa vuoi? – e subito fui come investita dall’immagini, veloci eppure comprensibili, mani che frugavano la paglia, sino a trovare una bigoncia di pelle, vidi le monete scorrere sul palmo e il ghigno dell’uomo che con freddezza, colpì il cavallo, fino a spingerlo a calpestare il corpo svenuto dello stalliere, portandolo ad una morte terribile.
Sebbene tremante, sono corsa dal Rettore, con voce appena udibile ho raccontato di aver visto il garzone del fornaio uscire di corsa dalle stalle, poco prima di recarmici, in anticipo, per la lezione, mi presi una ramanzina per aver infranto le regole (non avevo seguito l’orario), ma verso sera ci fu un borbottare a cena, mentre osservammo, sgomente la polizia arrestare il garzone, trovandolo in possesso delle monete (i risparmi) ancora sporche del sangue dello stalliere. Mentre gli uomini si allontanavano non potei fare a meno di vedere lo spirito sorridere, prima di svanire nel nulla.


E’ questo dunque il mio compito? Aiutarli? Ma come? Perché? Dio perché a me questo compito?

 
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Tulipano Nero
view post Posted on 1/12/2006, 16:47




E' veramente bello e appassionante. Complimenti veramente, ha tanta di quella atmosfera che me lo continuo a pensare anche dopo. Mi ricorda tanto, un gioco di qualche anno fa, si chiamava Alone in The Dark, l'atmosfera è quella, bello, bello.

E' inutile che io ti dica che è scritto da paura, già lo sai, tu avresti un futuro in questo campo imho, se già non ce l'hai...
 
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Altherea
view post Posted on 1/12/2006, 17:15




no, non ce l'ho il successo, c ho pensato diverse volte, ma mi manca il coraggio di spedire e tentare...forse per paura di un No, anche per questo molto spesso scrivo..e non concludo, è come un lasciarmi la porta aperta...
 
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Tulipano Nero
view post Posted on 1/12/2006, 17:31




Prova a chiederti perchè hai paura di essere felice.
Un Bacio.
 
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Altherea
view post Posted on 2/12/2006, 09:51




Boston, 25 novembre 1915

Eloise è sempre più spesso con me, non più solo la notte e purtroppo anche gli altri “abitanti” di questo College, troppe anime sono passate per questo luogo, ho scoperto che in passato era un vecchio maniero, anime vecchie e pallide ogni giorno mi passa accanto.
Intanto i nostri genitori e lo stesso Rettore ci hanno comunicato che una grande guerra è scoppiata in Europa e che ora interessa anche noi, visto che molti uomini sempre più spesso vengono richiamati alle armi, ho il terribile pensiero che ora saranno molte di più le anime che vedrò comparire a fianco di alcune delle studentesse.
Eloise mi ha spiegato che chi, come lei, si è tolto la vita è costretto a vagare senza trovare pace per il limbo che unisce terra e quella che lei chiama Ricompensa; chi, come lo stalliere, viene ucciso trova pace solo quando la sua morte viene vendicata, ma molti, decidono di rimanere a fianco dei loro cari, incapaci di separarsi da questo lato terreno.
Le ho chiesto se esiste Inferno e Paradiso e se questo Limbo è come il Purgatorio… Non posso, non voglio mettere in discussione quello in cui credo, ho spesso pregato Dio di sostenermi e finora non sono impazzita, come posso quindi mettere in dubbio quanto mi è stato insegnato? Quello che mi ha sostenuto?
Ma non ha risposte Eloise, forse non le è dato sapere, l’unica cosa di cui è certa è l’esistenza di un Bene e di un Male e quindi sia un’esistenza Divina e benevola pronta ad accogliere chi lascia il lato terreno ed un’esistenza più malefica, che noi spesso chiamiamo Diavolo. Si è rifiutata di dirmi altro, dice che non devo conoscere troppo, altrimenti, un giorno, non saprò scegliere..



Boston, 02 dicembre 1915


Questa settimana mi si è avvicinato lo spirito di una vecchia cameriera, non abitava qui, questo no, ma conosceva bene una delle cuoche, per tutta la notte la mia mente è stata attraversata dalle immagini di questa donna piangente, alla fine ho acconsentito ad aiutarla e mi ha mostrato dove trovare un cofanetto, che tempo addietro aveva sotterrato.
Nel cuore della notte, Eloise al mio fianco, sono scesa per la scalinata, uscendo nella notte fredda e umida, lo spirito mi ha portato a piedi di una grossa quercia e qui tra le radici nodose, in un punto ben preciso, ho trovato il piccolo cofanetto.
Ma sono stata sorpresa, il Rettore stesso, mi ha raggiunta illuminandomi con una delle lanterne, domande su domande, bruschi rimproveri, finché non l’ho convinto che mi ero alzata, camminando sonnambula fino a ritrovarmi alla vecchia quercia, e siccome stavo sognando proprio di trovare quel cofanetto mi ero messa a cercarlo.
Il mio imbarazzo e timore crescevano sempre più sotto lo sguardo di quell’uomo che nervoso stringeva ed apriva i pugni, ma poi per fortuna sono arrivate alcune persone della servitù, fra cui proprio la cuoca che mi aveva indicato lo spirito.
Osservandomi sbigottita non notò subito il cofanetto, ma poi quasi gridando mi è corsa accanto, piangendo e mormorando che quello era della sua povera cugina, morta anni fa, che l’avevano seppellito insieme, ma che da tempo non ricordava dove.
Glielo consegnai tremante, sotto lo sguardo pensieroso del Rettore, mentre la cuoca ancora piangendo lo afferrava stringendolo al seno, per poi aprirlo con delicatezza, quasi nel timore di rovinarlo. Poi tra vecchie spille e bottoni, estrasse quasi trionfante una vecchia fotografia, che la ritraeva (ancora giovane e bella) in compagnia di una donna magra e pallida in cui riconobbi lo spirito della cameriera.


Boston, 01 gennaio 1916

L’atmosfera è tetra, benché sia il mio sedicesimo compleanno, oggi mia madre mi ha accompagnato a comprare un vestito per la festa in mio onore, ma sono costantemente tenuta d’occhio, ogni mio comportamento, ogni movimento è monitorato da mia madre, alla ricerca sicuramente di qualche segno di pazzia.
Devo mantenere la calma e la lucidità, per strada, nei vicoli, ovunque vedo i corpi martoriati dei morti in guerra, sono troppi quelli che tornano, ancora legati ai ricordi, ai loro cari, ne sento le urla di dolore, i pianti, i sospiri.



“Camminerò nella valle dell’oscurità e non temerò alcun male, perché tu sarai con me”


Ho lasciato entrare Eloise dentro di me. Durante la festa, mentre danzavo e cercavo d’essere come tutte le altre ma la vedevo, ferma e immobile, sgraziata e grigia contro gli abiti colorati delle invitate, mi guardava e (per l’unica volta) i suoi occhi erano brillanti mentre mi osservava ballare.
Sentivo le sue emozioni, la nostalgia del mondo che aveva abbandonato e non so, ho sentito come l’impellente esigenza di entrare dentro di me e per un attimo, un solo stante, rivivere ancora, così in un momento di distrazione generale, gliel’ho permesso.
Titubante l’ho sentita scivolare dentro di me ed è stato come se un freddo agghiacciante mi mozzasse il respiro e una patina mi offuscasse la vista per un secondo, come in un sogno, vedevo e sentivo il mio corpo muoversi, ma non ne avevo la completa percezione, era sconcertante ed emozionante al tempo stesso.
Eloise volteggiava con il mio corpo, la sentivo ridere nella mia mente, gridare di gioia, sempre più frenetica, mentre io mi sentivo confusa, spossata, come se le mie energie fossero sempre più risucchiate, con uno sforzo enorme in un ultimo lampo di coscienza sono riuscita a tornare padrona del mio corpo, accasciandomi senza forze, sorretta per fortuna dal cavaliere del momento.
Percepivo i mormorii delle invitate, mia madre ordinare alla cameriera dell’acqua fresca e la voce di Elise piangere e chiedermi perdono, che non aveva resistito pur sapendo le conseguenze, ma che era così bello poter rivivere, anche se non veramente e poi, finalmente, il buio.
 
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Altherea
view post Posted on 14/12/2006, 20:57




II





Boston, settembre 1918


Chiudo il mio vecchio diario, le mani piccole ed affusolate ne
accarezzano la copertina consunta, accavallo le gambe, sistemandomi al
meglio contro la poltrona, gli occhi chiusi mentre ripenso ai quattro
anni passati al College, mi sembrano secoli eppure solo il mese scorso
ho compiuto sono rientrata a casa.
Doveva essere l'ultimo anno, ma sono stata richiamata subito a casa, mio
padre si era gravemente ammalato e con mia madre ora attendevamo, senza
ormai più alcuna speranza, il momento dell’addio, alternandoci spesso al
suo capezzale.
Apro gli occhi, volgendomi a guardarlo, ancora più vecchio, tutto
infagottato nelle coperte, i capelli, ormai bianchi, arruffati e lo
sguardo spento, perso chissà dove, osservo il lento abbassarsi del petto
ad ogni respiro, le macchie sulla pelle. Non v'è più traccia di
quell'uomo forte e possente che tempo addietro aveva deciso del mio
destino, allontanandomi da casa.
Un sospiro freddo, mentre Eloise compare al mio fianco, lo so, è il
momento, percepisco il respiro farsi sempre più debole, lentamente mi
alzo e busso piano alla porta di comunicazione con la stanza di mia
madre, aprendola leggermente: - Madre- dico solamente, non c'è bisogno
d'altre parole, mentre torno al capezzale di mio padre.
Un fruscio delle lunghe gonne annuncia il suo arrivo e guardo quella
donna ch'è simile a me eppure lontana, da lei ho ereditato i lunghi
capelli rossi e il corpo esile, mentre da mio padre i profondi occhi
azzurri, che ora invece guardano opachi oltre le nostre figure.
Rimaniamo distanti, una al lato opposto dell'altra, mentre il medico,
sicuramente chiamato da lei, si avvicina, controllando il respiro e il
battito, un lieve accenno del capo, mentre si scosta verso i piedi del
letto.
Non vedo l'ultimo respiro di mio padre, ma ne osservo lo spirito
scostarsi, confuso, etereo, mentre volge il capo prima a sè stesso, al
corpo immobile, a mia madre scoppiata in lacrime ed infine il suo
sguardo nel mio, stupito, incredulo e lo vedo finalmente capire le mie
stranezze, i miei silenzi e tutti quei comportamenti che lo avevano
spinto ad allontanarmi, a nascondermi.
Eloise gli si affianca, accogliendo la mia silenziosa richiesta,
bisbigliandogli qualcosa che non sento, non ho il coraggio di parlare,
di avvicinare la mia mente alla sua, troppo dolore, ma anche rabbia e
risentimento, per una comprensione arrivata troppo tardi. Una lacrima mi
riga la guancia e in quel momento, sento la carezza di mio padre e la
sua voce mormorarmi: - Perdonami – prima di scomparire nel nulla.
Il pianto di mia madre mi riscuote, il medico mi accenna che è il caso
di scostarla dal cadavere di mio padre, ora devo pensare a lei,
organizzare il funerale, mi muovo come un automa, di stanza in stanza,
ascoltando appena le condoglianze della servitù, dei pochi parenti e
conoscenti riuniti in salotto, vorrei solo che se ne andassero, ma sono
ligia ai miei doveri, sorrido, inclino la testa, sono abituata a
fingere.
I funerali si svolgono in una giornata grigia e uggiosa, Boston sembra
compiangere mio padre, mia madre acanto a me continua piangere e per un
attimo la devo trattenere mentre sembra volersi aggrappare alla cassa. E' così fragile, sciupata, diversa dalla donna che ricordavo, profonde
occhiaie le affossano gli occhi, le mani tremanti, le unghie
rosicchiata, è¨ l'ombra di sè stessa mentre devastata dal dolore
pronuncia il suo addio.
Sono tesa, mentre osservo come estraniata la funzione, attorno a me
sento dolore, lacrime, sospiri lontani, le anime del cimitero mi
tormentano con le loro grida, le richieste, le sento passarmi accanto,
molte vorrebbero entrare nel mio corpo e prenderne possesso, per tornare
alla vita, ma Elise riesce ogni volta ad allontanarle, mentre mormora
parole che non comprendo.
In molti sono venuti a rendere omaggio, facce conosciute e non
osservando mia madre con imbarazzo e me con curiosità , la figlia stramba
tornata all'ovile, li vedo parlare e sussurrare tra loro in un falso
cordoglio, stringo i pugni, gli occhi rabbiosi celati dalla veletta
nera, ma poi il mio sguardo è attratto da un uomo in particolare,
discosto dagli altri..

Edited by Altherea - 26/12/2006, 14:49
 
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Altherea
view post Posted on 2/3/2007, 14:40




Apparentemente insignificante nel suo completo scuro, l’ombrello chiuso appoggiato al braccio, il viso inespressivo eppure i suoi occhi mi incatenano e sento come un fuoco bruciarmi dentro, improvvisamente è come se fossimo soli, mentre le voci del parroco si fanno sempre più lontane, gli occhi mi si velano e poco prima di cadere ai piedi della bara, riesco a percepire ancora i suoi occhi che mi fissano.
Più tardi, sdraiata sul mio letto, spossata ho a malapena la forza di guardare Eloise muoversi irrequieta e rispondere alle sue domande.
- Dimmi ancora che cosa hai provato – mi chiede ancora.
- Un calore intenso e poi, non so era come se la realtà si staccasse da noi, vedevo solo lui, lo sentivo – mi interrompo cercando le parole adatte – lo sentivo dentro di me.
- Come quando sono entrata dentro di te? – i suoi occhi si fissano nei miei, scrutandomi.
- No – rabbrividisco al ricordo – con te il contatto è freddo, un grande freddo ed è come guardare la vita da uno specchio. Con quell’uomo invece ero pienamente cosciente ma, era come se la realtà si piegasse su sé stessa – taccio, ripensando ancora a quello strano evento e quasi non mi accorgo che non ho parlato, la mia bocca non ha proferito parola, conversando con Eloise solo mentalmente, il lampo di questo pensiero e scorgo il suo sguardo beffardo – Te ne sei resa conto finalmente –
- Ma com’è possibile? – ancora stupefatta, in tutti questi anni mi ero abituata alla sua voce che mi raggiungeva mentalmente, ma non avevo mai provato a fare altrettanto.
- Credo che quando uno di noi prende possesso del tuo corpo, rilasci una capacità o una parte della sua energia, potenziando la tua recettività – mi spiega con calma, ora pensosa mentre si avvicina alla finestra e nello stesso tempo un pensiero mi assale: che succederebbe se quell’uomo o essere che sia, riuscisse a entrare dentro di me? Risucchierebbe ogni mia energia? Mi contaminerebbe con qualcosa di oscuro?
Eloise, forse intuendo o leggendo nei miei pensieri solleva appena lo sguardo, mi rendo conto che non so molto di lei, della sua storia, se non quel poco che ho visto, percepito negli anni in cui mi ha accompagnato, posso fidarmi di lei? Perché è sempre al mio fianco? Ha anche lei uno scopo?
Le mie mute domande vengono interrotte dall’arrivo di Molly, la cameriera, che silenziosa come sempre posa un vassoio del the sul tavolino, non mi volto neppure, rannicchiata nel letto, immersa nei miei pensieri finchè non m’accorgo che è ancora nella stanza, fiaccamente mi metto seduta, ma non posso fare a meno di lanciare un ultima occhiata verso Eloise.
Guardo interrogativamente la donna, da sempre presente in casa nostra,una ragnatela di rughe profonde ne solcano il viso, e nel pallore della pelle scorgo un rossore imbarazzato, mentre nervosa si stropiccia le mani.
- Che c’è Molly? -
- Ecco Signorina – la voce è quasi un sospiro eppure la so capace di urla e toni minacciosi, soprattutto quando deve insegnare il mestiere a qualche nuova ragazza – Volevo solo dirle che mi dispiace molto per suo padre – il tono s’incrina, mentre una lacrima rotola sulla guancia – E’ sempre stato un buon uomo e – stranamente s’interrompe, il viso abbassato quasi a guardarsi i piedi e poi improvviso, sento quello sguardo su di me, brutale, appannato e un brivido mi fa rannicchiare ancor di più.
- Tu sei la porta – semplici parole eppure la voce sembra rimbombare nella stanza, graffiante ed assordante, il corpo immobile, le braccia abbandonate ai fianchi e il volto inespressivo, ma quegli occhi… sembrano perforarmi eppure sono vuoti, appannati. Eloise mi si avvicina, percepisco la sua paura ma anche una certa attrazione, la stessa che provo io, con violenza stringo i pugni lasciando che il dolore si faccia strada, quel tanto per riuscire a trattenermi da quella sorta di ipnosi.
- Chi sei? – quasi grido, oppure è la mia mente? Non riesco più a capire quale sia la mia voce e quale l’eco dei miei pensieri, di nuovo quella sensazione di risucchio, la realtà che si sdoppia e mi pare quasi che il tempo scorra veloce, mentre le ombre si susseguono attorno a noi, eppure sono pochi i secondi che passano, mentre muove i primi passi verso di me, Molly sembra una bambola di pezza guidata da un bambino maldestro, mentre incespica nelle sottane, ma i suoi occhi non perdono mai il contatto coi miei e io mi ritrovo attanagliata al letto incapace di muovermi.
Con un gemito strozzato vedo invece Eloise trovare la forza di reagire e lanciarsi letteralmente contro quella figura, sbarro gli occhi mentre la vedo arrestarsi, come se si fosse abbattuta contro un muro invisibile, percepisco la sua paura, la sorpresa e più latente la sua rabbia, mi si rizzano i peli delle braccia, l’aria è carica di elettricità, Eloise è immobile, come boccheggiante, grottesca nel suo essere perfetta eppure la sento devastata, nervosa e via via più debole, quasi mi aspetto che svanisca sotto i miei occhi.
Molly distoglie lo sguardo da me, sembra indagare curiosa in Eloise e io trovo finalmente la forza di alzarmi, il mio terrore, la mia curiosità. La mia attrazione sono così forti che tremo da capo a piedi e sono costretta a puntellarmi sul letto, mi sfugge l’espressione rabbiosa che passa sul volto della cameriera ma sento l’urlo mentale di Eloise e poi il mio, mentre, fulminea quella cosa si avvicina afferrandomi le mani.

Un dolore intenso mi risveglia e mi trovo il viso di mia madre sul mio, la mano alzata per schiaffeggiarmi ancora, scuoto leggermente il capo, mentre la pelle della gota si fa rosea, poi gli occhi sbarrati di terrore, le serro le mani ai polsi e mi sporgo oltre il suo corpo, cercando quell’essere… Ma trovo solo Molly, piangente, mentre il nostro maggiordomo l’aiuta ad alzarsi, un livido prende inesorabilmente forma sulla sua tempia sinistra, le vesti sono stracciate in più punti e trema in preda allo shock, alla paura.
- Molly – la mia voce è gracchiante mentre appoggiandomi a mia madre mi rimetto in piedi, facendo l’atto di avvicinarmi, ma il suo scatto spaventato mi blocca, ferita, non ricordo nulla, sento il mio respiro affannato, mi martella la testa e percepisco gli sguardi di mia madre e della servitù..per loro sono ancora quella bambina strana di anni fa e lascio che l’oscurità mi porti un po’ di pace.
Un freddo intenso mi riscuote dal torpore, le palpebre mi sembrano incollate da tanta fatica faccio ad aprire gli occhi e quando ci riesco, trattengo a stento un urlo, perché mi trovo in piedi, davanti alla finestra, agghiacciata, morta, grigia e fumosa mentre guardo il mio cadavere sdraiato inerte nel letto, urlo, urlo con quando fiato ho in gola.
Mi risveglio matida di sudore, mia madre con la mano ancora levata, mentre sento la guancia infuocarsi dove il suo schiaffo mi ha colpito, la usa immagine tremula, poi torno nuovamente a fissarla, sono nella mia camera, illuminata da alcune lampade ad olio, mia madre, il volto tirato, le occhiaie, si risiede accanto al mio letto, tremo, non riesco a fermare questo tremore che quasi mi fa sbattere i denti.
 
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Altherea
view post Posted on 9/3/2007, 09:49




- Oh Loren – il suo tono è stanco, triste, ormai ha perso ogni speranza di avere la figlia che ha sempre sognato, glielo leggo negli occhi e non riesco a sostenerli, affranta dal peso della delusione, dalla rabbia di non poter essere chi sono e dal terrore, di non sapere più chi sono veramente..
E poi vedo mia madre guardarmi con attenzione e con disgusto, lo sguardo fisso sul mio capo, come un automa mi volto verso il lavabo lì accanto e spiazzante la realtà, quando noto una ciocca nivea risaltare sui miei capelli corvini.
Mi chiudo in un ostinato silenzio, anche Eloise vorrebbe pormi domande su domande, ma sono troppo stanca, troppo spaventata, sento i domestici bisbigliare dietro le porte, Molly è stata “congedata” con un lauto compenso e il tacito accordo di tenere la bocca chiusa, mia madre, gli occhi ancora rossi di pianto, mi guardano con disgusto, soffermandosi spesso sulla mia ciocca bianca, è in quell’attimo che decido di chiudere questa vita, scappare, fuggire il più lontano possibile.




III




Boston, 31 ottobre 1918

Ho dovuto attendere a lungo, ma erano troppe le cose ancora da sistemare, l’eredità di mio padre, le condoglianze da ricevere, non posso, non potevo far sostenere a mia madre anche il peso di uno scandalo come la mia fuga.. Ma questa sera si, approfitterò della festa di Halloween, saranno in molti per le strade a festeggiare e nessuno baderà a me, nonostante la valigia, che ho nascosto sotto il letto.
Sto ignorando Eloise, che non approva la mia scelta che tenta in ogni suo essere di chiedermi qualcosa su quella giornata, ma io non voglio pensare, non voglio tornare a quelle sensazioni, la mia paura è più forte di qualsiasi altra curiosità, ora voglio solo andarmene da questa casa..
Eppure…eppure mi mancherà, benché vi abbia abitato per troppo poco tempo, non posso fare a meno di sfiorare ogni mobile, di sorridere ai segni sullo stipite, quando da bambina controllavo la mia altezza e là, nell’angolo, ancora i graffi quando avevo fatto cadere la brocca dell’acqua o la mia bambola Betty, piccola e brutta, nel suo vestitino sgualcito, con amore la ripongo nella valigia, non la lascerò qui.
Ormai è tardi via via vengono accesi i lampioni, immobile sosto davanti alla finestra, ho rifiutato la cena, non potrei mangiare, un nodo mi stringe la gola, non piango solo per orgoglio e perché potrei crollare e non riuscire a varcare la soglia..
- Sei sicura della tua decisione? – Eloise legge nella mia mente, o solo nei miei occhi, fissi sulla strada.
- Ti prego non chiedermelo – la voce incrinata, no, no non devo piangere, devo andarmene, devo, qui non c’è posto per me, non posso deludere ogni giorno mia madre, non posso. Grido nella mia mente, mi aggrappo a questi pensieri, le labbra strette, i pugni chiusi contro i gomiti, tutto in me sembra raggomitolarsi su se stesso.
- Dove andremo? –
- I soldi non mancano, ce la caveremo – la mia praticità mi salva dal crollo. Ho ereditato parte dei beni di mio padre, senza dir nulla a mia madre, li ho spostati in un fondo fiduciario, una piccola banca sconosciuta, sto facendo di tutto per non farmi più trovare…con la netta sensazione che non ci sarà nessuno a cercarmi.
E’ buio quando finalmente la vecchia pendola suona la mezzanotte, ho atteso, seduta immobile sul letto, nell’oscurità, le orecchie tese a percepire ogni più piccolo rumore, il cigolio delle scale, alle 21 James ha chiuso la porta d’ingresso, ha controllato ogni singola finestra e si è finalmente ritirato nell’ala della servitù. Nessuno mi avrebbe sentito, eppure ho tardato, solo ora mi alzo, rigida, recupero la valigia, stringendola nervosa, finchè le nocche non impallidiscono, Eloise al mio fianco, si volta con me per un ultimo sguardo e scendo silenziosa.
Conosco ogni scalino, da piccola la notte sgattaiolavo in cucina a rubare qualche biscotto di Mary, la cuoca, avevo imparato ad essere silenziosa, per non svegliare mia madre, che sicuramente si sarebbe infuriata, lei così ferrea nella disciplina, ligia ad ogni regola.
Gli occhi si sono abituati all’oscurità, con la mano soppeso il legno lucido del corrimano, conto mentalmente, destra, destra, sinistra, fino al pianterreno, lascio andare il respiro, solo ora mi sono resa conto di averlo trattenuto, ma il peggio è passato, ora non c’è nulla che possa fermare questa mia scelta.
Eloise si dirige verso l’ingresso, ma mentalmente la richiamo, no non da lì, il portone farebbe troppo rumore, userò la porta sul retro, dal giardino sarà più facile raggiungere poi la strada confondendoci ai pochi passanti che ritornano ora dalle feste, forse con un po di fortuna troverò anche una carrozza.
L’aria fresca mi fa rabbrividire, mi stringo il cappotto addosso, silenziosa, richiudo la porta muovendo pochi passi nel giardino, non resisto, mi volto ed uno sguardo ancora verso la casa che mi ha vista nascere e che ora mi vede fuggire, forse, forse un giorno tornerò, èla muta promessa che faccio al mio cuore.
Eloise mi precede, è già sulla strada, nella mente sento i suoi commenti a quelle strade che non conosce, ai giochi di luce notturni, mi incita a muovermi, che sta passando una carrozza. Corro goffamente, temendo sino all’ultimo d’essere tradita dal cancelletto, che invece si apre silenzioso, ora incurante del ticchettio sul marciapiede, la sinistra ferma sul cappello, svolto l’angolo, in tempo per far cenno alla carrozza.
Solo ora mi rendo conto di non avere un’indirizzo a cui andare, il cocchiere attende silenzioso, ha notato i miei abiti, la zona, sa aspettare senza mettermi in imbarazzo, alla fine gli dico di andare verso il centro di Boston, forse un’idea mi verrà passando per le vie della città.
- E ora che facciamo? – Eloise, al mio fianco osserva le vie illuminate, curiosa, in lei rivedo finalmente l’animo della bambina che era, mentre la bocca rosea dipinge stupore, gioia, nell’oservare un mondo fino ad ora, forse, sconosciuto.
- Non lo so, non so dove andare, - la mia mente febbrile cerca una soluzione, entrando in uno degli alberghi, data l’ora darei sicuramente nell’occhio, una pensione di periferia è fuori discussione, non mi sentirei a mio agio e avrei sicuramente paura. Scruto le vie ambigue e uniformi profilarsi davanti al finestrino, mentre mi lascio scivolare contro il sedile, la valigia abbandonata sul pavimento, l’abito scomposto.
Ligia agli insegnamenti di mia madre, quasi in automatico mi sistemo meglio sul sedile e proprio in quell’attimo la mia mano sfiora qualcosa, abbasso lo sguardo e noto ora un piccolo biglietto da visita, rimasto incastrato tra lo schienale e il sedile.
Anche Eloise mi guarda, ora attenta ai miei movimenti, con delicatezza sfilo il biglietto dal suo nascondiglio, è semplice seppur raffinato nel suo essere, davanti, su uno sfondo nero spicca un numero: 1901 dipinto a caratteri dorati, incuriosita lo giro:

CLUB 1901
Birthday on: 01/01/1901
Residence, circolo letterario, affair & co.
Al vostro servizio


- E’ perfetto! – mi grida quasi nella mente Eloise – è il luogo per noi! – mesi più tardi avrò modo di capire quanto queste parole fossero vere, ora titubante osservo il suo volto, pallido nonostante il suo entusiasmo e nuovamente quel piccolo biglietto, distinto busso al cocchiere – Mi porti al 1901 – pregando che lui stesso sappia dove si trovi, non è indicato via o luogo, potrebbe anche essere al di fuori di Boston, invece lo sento replicare – Si, Miss -
Finalmente ho una meta, rincuorata mi appoggio al sedile e ben presto mi abbandono alla fatica, alla tensione della giornata e scivolo in un sogno…

…..Cammino per stanze che non conosco, alle pareti stoffe damascate ricoprono forme che non riesco a definire, sento delle voci, ovattate e con spavento mi accorgo di movimenti proprio dietro questi pesanti tendaggi, come se persone volessero oltrepassare il limbo in cui sono costrette. Fuggo spaventata, sala dopo sala, mentre le voci si fanno più vicina, sovrastate solo dal battito del mio cuore, dal mio respiro, fuggire, fuggire, voglio solo fuggire! Luci, flash, una bambina che ride, una bambola rotta, Eloise morta, ancora il cappio al collo, strani oggetti mi passano accanto, o forse sono io che fuggo da loro, non lo so, continuo a correre, correre, correre. E tutto si ferma di botto. Immobile. Statico. Silenzioso. E improvvisa una voce comincia una litania, una lingua strana, mai sentita, fatta di consonanti, di suoni gutturali, mi attrae, mi spaventa,la stanza, tutto comincia a vorticare attorno a me, mentre il tono cresce, sempre di più, sempre più veloce, sempre di più, di più di più. Fermo! Tutto è nuovamente fermo. Silenzioso, sono in una stanza, piccola, accogliente, un divano di pelle, i broccati di un tenue color panna, il fuoco acceso attira la mia attenzione. Una poltrona, un ragazzo: - Benvenuta Signorina Loren - ….
 
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Altherea
view post Posted on 1/6/2007, 07:57




Mi risveglio di soprassalto, lo sguardo spaventato sull’apertura della carrozza, mentre il cocchiere mi guarda perplesso, anche Eloise mi guarda stupita, un lieve sudore mi imperla la fronte, mentre il rossore m’imporpora le gote. Con lentezza mi decido a scendere, lasciando al cocchiere il compito di recuperare la valigia, troppo perplessa per dire alcunché, quasi meccanicamente lascio cadere qualche moneta sul suo palmo e resto lì immobile mentre la carrozza si allontana.
Un lampione illumina fiocamente un grosso portone, il legno è dipinto di un lucido nero, mentre borchie ottonate conferiscono un aspetto sinistro all’entrata, spessa e massiccia, quasi a voler sottintendere di mantenere il mondo all’esterno, un batacchio spicca nel centro, null’altro, né scritte, né spioncini, nulla.
Elise mi guarda alzando le spalle con fare noncurante e mi irrita in quel momento quel gesto, con risolutezza afferro la mia valigia e impugno il batacchio, non sono pronta al suo rumore, che sembra rimbombare per la strada deserta, attendo.
Non un rumore proviene dall’interno, i minuti mi sembrano passare ancor più lentamente, mi chiedo se sono nuovamente caduta in un sogno o se tutto questo è reale. Si, sono fuggita di casa, senza meta, senza uno scopo, sono qui, davanti una porta che di rassicurante non ha nulla ma dopotutto nella mia vita non c’è nulla di rassicurante..
Quasi grido quando il rumore di un chiavistello s’insinua nei miei pensieri, compitamente stringo la valigia e attendo, mentre la porta lentamente si apre, una figura sosta sulla soglia, senza proferire parola.
- Buonasera, sono Loren Frambois – riesco a dire, vergognandomi del suono flebile che riesco a produrre, intimorita, da quella presenza, arrabbiata per la sua indolenza e maleducazione nel star lì a non dire nulla, lasciandomi sulla strada e spaventata dalla possibilità che anche questa via mi sia chiusa.
Finalmente la figura decide di spostarsi, entrando nel cerchio di luce del lampione e rivelandosi un cameriere alto e imponente, i capelli corvini ed occhi magnetici neri come la notte che sembrano trapassarmi, un sorriso compito ne smuove il volto, per pronunciare poi con un forte accento straniero – Miss Frambois la stavamo aspettando – detto questo, con movimento fluido mi prende la valigia, e si scosta facendomi cenno di entrare.
 
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11 replies since 28/11/2006, 17:20   424 views
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